Alla fine del secolo scorso Susan Strange aveva posto la provocatoria domanda: “Chi governa l’economia mondiale?” (1).
A distanza di pochi anni questo interrogativo è ancora d’attualità e riguarda un contesto in rapida evoluzione, soprattutto per effetto del prepotente ingresso della Cina e dell’India nel mercato mondiale. E’ infatti a seguito di questo fenomeno che in soli dieci anni, dal 1990 al 2000, le esportazioni sono raddoppiate in volume e sono cresciute in valore dell’80%. L’uso delle tecnologie informatiche e della telematica ha fatto il resto, contribuendo a dar vita a un nuovo modo di produrre e di commerciare, la società in rete per usare l’espressione del sociologo Manuel Castells.
E’ ormai l’Asia che traina lo sviluppo mondiale ed è significativo che, anche grazie ai due colossi asiatici, con tassi di crescita annui del PIL a due cifre (del 10,5% la Cina e del 10,24% l’India nel 2006) i paesi emergenti producono ormai più della metà della ricchezza mondiale.
Le politiche economiche attuate da questi due Stati sono però differenti.
La scelta liberista della Cina, uno Stato continentale di un miliardo e mezzo di persone, è bilanciata dalla forte presenza dello Stato nelle scelte programmatiche. La sua politica economica, che nel recente passato ha puntato prevalentemente sull’export per il suo sviluppo, è ora indirizzata a favorire il consumo interno, ancora piuttosto basso. Nel 2005 si sono dimezzate le importazioni rispetto ai due anni precedenti, mentre le esportazioni sono scese dal 26,8 % del PIL nel 2003 al 24,8% nel 2006.
L’India, che ha una popolazione di più di un miliardo e cento milioni di persone, ha già da tempo deciso di espandere il proprio mercato interno più che puntare sulle esportazioni, che sono pari al 12,4 del PIL nel 2005 (la metà di quelle cinesi).
L’intervento dello Stato indiano nell’economia è più sfumato, è più “basato su una ricca imprenditorialità, con grandi multinazionali competitive a livello mondiale” (2), ma è sempre determinante .
La crescita di questi due paesi è tuttavia accomunata da un preoccupante dato: il crescente divario dei redditi e nella distribuzione delle ricchezze al loro interno.
Questi squilibri rischiano di produrre delle gravi conseguenze all’interno di Cina ed India, e non a caso i governi di questi due paesi stanno attivando dei correttivi che, proprio per le dimensioni di queste economie e la loro integrazione nel mercato globale, non potranno non avere ripercussioni sull’economia mondiale.
Il problema è che, anche a seguito della globalizzazione, ben più gravi squilibri stanno radicandosi anche a livello internazionale: a fronte dei quasi 41000 dollari di reddito procapite annuo di un abitante dell’America del nord e dei quasi 28000 dollari di un abitante dell’Unione Europea, un abitante dell’Africa subsahariana deve vivere con poco più di mille dollari.
La globalizzzione, di per sé, non può produrre giustizia.
Oggi viviamo in una situazione paradossale che Joseph E. Stigltz ha descritto come il “costo del sistema di riserva globale”, in cui tutti i paesi debitori hanno un doppio cappio al collo, tranne gli Usa (3).
Come scrive Stiglitz oggi “gli USA, il paese più ricco del mondo, continuano a ricevere in prestito dai paesi poveri 2 miliardi di dollari al giorno”: il paese più indebitato viene così costantemente finanziato dagli altri paesi per il solo fatto di detenere la moneta che è al tempo stesso riferimento per le riserve delle banche centrali (pari a 4500 miliardi di dollari nel 2005) (4) e per il commercio internazionale.
Come mette in evidenza Stiglitz, i paesi in via di sviluppo che comprano dollari (quindi prestano soldi agli USA a tassi bassissimi) subiscono più degli altri i costi della globalizzazione, in quanto “il paese che chiede un prestito è costretto contemporaneamente ad accumulare parte dei suoi introiti a riserva per far fronte alla copertura del debito a scadenza, per cui per assurdo si indebita due volte”.
Normalmente una moneta si afferma come moneta di riserva perché offre garanzie per quanto riguarda la stabilità del sistema economico e del commercio internazionale. Una situazione questa sempre meno vera per il dollaro, che oggi è legato ad un paese caratterizzato da un enorme debito e da un altrettanto grande disavanzo commerciale.
Non è casuale quindi la tendenza da parte delle banche centrali di diversificare le proprie riserve aumentando per esempio le quote detenute in euro. Ma questo comportamento ha ovviamente delle conseguenze per quanto riguarda la moneta e l’economia europee: la prima si sta rivalutando (in termini reali vale già oltre il 30 per cento in più rispetto al dollaro), mentre la seconda incomincia a soffrire in termini di crescenti disavanzi delle bilance commerciali di alcuni paesi. E poiché l’euro non ha alle spalle uno Stato capace di fare una politica economica e monetaria ma, come osserva Stiglitz, ha “una banca centrale che si preoccupa solo ed esclusivamente dell’inflazione, senza alcun riguardo per i problemi occupazionali e della crescita”, prima o poi gli europei dovranno affrontare questo problema.
Finora, sul piano globale, un fattore ha bilanciato il rischio di un repentino crollo del sistema fondato sul dollaro: lo stretto legame che lega gli USA e la Cina in campo commerciale e finanziario. Come scrive Stigltiz oggi “la Cina e gli USA si tengono reciprocamente in ostaggio”. Il problema è rappresentato dal fatto che una incrinatura di questo legame potrebbe avere delle conseguenze dirompenti anche per il resto del mondo.
Alcune recenti decisioni del governo cinese fanno presagire dei cambiamenti per quanto riguarda l’atteggiamento della Cina nei confronti della globalizzazione e del suo rapporto con il dollaro. In primo luogo il governo cinese ha per esempio deciso di creare una holding finanziaria, controllata dalla Banca Centrale cinese per gli investimenti all’estero destinata a diventare “uno dei più potenti investitori mondiali”. Attraverso questa holding la Cina potrebbe incominciare a scongelare le montagne di riserve valutarie accumulate nei forzieri della sua banca centrale (a fine 2006 erano 1077 miliardi di dollari e raddoppieranno in quattro anni), riversandole nel mercato mondiale. In secondo luogo è in corso una riforma nel settore delle banche pubbliche cinesi, che dovrebbe consentire da un lato di utilizzare meglio le riserve, troppo dipendenti dal dollaro, e gli investimenti, troppo legati ai titoli americani, e dall’altro sarebbe destinata a favorire il credito per un settore in difficoltà come quello agricolo.
L’India e gli USA nel frattempo non staranno a guardare, perché queste misure avranno delle sicure ripercussioni economiche e finanziarie sulle rispettive economie.
E l’Europa? E’ sempre più evidente che il nostro continente sta tuttora vivendo in larga parte sui successi dell’integrazione economica e monetaria conseguiti nei decenni passati. Ma proprio in quanto è assente sul terreno della politica estera e della difesa e non ha una politica monetaria internazionale credibile, in quanto tutti sanno che dietro l’euro non c’è un ministro del tesoro europeo, ma tredici politiche economiche e fiscali spesso in contraddizione fra loro, si trova impreparata a reagire prontamente ai grandi cambiamenti che si profilano.
La globalizzazione sta liberando
immense energie e risorse produttive, economiche e commerciali, che solo i grandi Stati di dimensione continentale sono ormai in grado, se non di controllare completamente, almeno di contenere, dirigere, adattare. Per questo il nostro continente, finché gli europei non si dimostreranno capaci di creare uno Stato federale europeo, sarà destinato a subire gli effetti della globalizzazione e le scelte degli altri attori mondiali e a giocare un ruolo marginale.
1) Susan Strange, Chi governa l’economia mondiale?, Il Mulino, 1998
2) Federico Rampini, L’impero di Cindia, Mondatori, 2006
3) Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, 2006
4) L’Asia detiene circa il 60% delle riserve mondiali, in grandissima parte in dollari, con la Cina che da sola ha riserve per oltre 1000 miliardi di dollari in valore (70% in valuta USA).