La creazione della moneta unica col Trattato di Maastricht ha segnato un momento di svolta fondamentale nel processo di integrazione europea. Chi fece la scelta dell’unione monetaria, primo fra tutti Helmut Kohl, sapeva bene che l’euro avrebbe costituito un investimento politico coraggioso, ponendo necessariamente le basi per un progetto di approfondimento istituzionale in direzione della Federazione europea. Difficilmente infatti la moneta unica sarebbe sopravvissuta nel lungo periodo sprovvista degli strumenti della statualità, quali il governo economico e la politica fiscale.

Il primo decennio di vita dell’euro è sembrato smentire questa previsione: grazie ad un quadro internazionale di forte espansione dell’economia, l’unione monetaria è riuscita a funzionare sulla base dei semplici parametri di stabilità (relativi in particolare al rapporto debito pubblico/PIL e al livello del deficit) che gli Stati si sono impegnati a rispettare sotto la debole supervisione della Commissione europea (nonostante il fatto che sia la Francia che la Germania abbiano in realtà sforato rispetto agli impegni previsti dal Patto, e che gli europei abbiano comunque pagato un prezzo elevato in termini di capacità di crescita economica, tanto che il divario rispetto agli Stati Uniti è tornato a crescere dopo decenni). L’Unione allargata a ventisette non ha pertanto voluto superare la sua dimensione confederale, lasciando intatta la sovranità degli Stati nazionali e quindi le sue divisioni interne. La grave crisi finanziaria globale scoppiata alla fine del 2009 si è abbattuta così su un’unione monetaria profondamente debole, che ha molto sofferto l’assenza di una sovranità europea alle sue spalle: paradossalmente, infatti, la crisi, pur trovando le sue origini in America, ha colpito soprattutto l’Europa, che, essendo priva degli strumenti della statualità, non ha né saputo, a differenza degli Stati Uniti, avviare politiche attive a favore della crescita, né evitare quei profondi squilibri economici interni, che sono stati, insieme alle contraddizioni inerenti ad un’area monetaria politicamente divisa, alla radice dei fenomeni speculativi.

Davanti al rischio di default della Grecia e dell’Irlanda molti osservatori hanno cercato di sostenere che la crisi non riguardasse tanto la moneta unica, che manteneva intatto il suo valore rispetto alla sterlina e al dollaro, bensì solo alcuni paesi periferici dell’Unione, i così detti PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Questi Stati, in seguito alla crisi che ha alimentato il debito (sia a causa della cattiva gestione dei conti pubblici, sia della scarsa crescita economica, sia della necessità di sostenere le proprie banche per evitarne il fallimento), si sono trovati nell’incapacità di rifinanziare il loro debito sovrano. Le debolezze strutturali di questi paesi hanno quindi messo in grave pericolo l’intera Eurozona, che, data la profonda interdipendenza economica dei suoi membri, difficilmente potrebbe sopravvivere al default anche di un solo Stato. La stampa più populista e gli osservatori meno attenti si sono così scagliati contro i PIIGS proponendo di dividere o addirittura distruggere l’Unione monetaria. In realtà la causa della crisi va cercata più a fondo. E’ sicuramente vero che paesi meno virtuosi, come la Grecia e il Portogallo, davanti alla crisi internazionale pagano il prezzo delle loro debolezze strutturali e anche delle loro scelte economiche sconsiderate, mettendo in pericolo allo stesso tempo l’intera Unione monetaria. Non bisogna tuttavia dimenticare che in passato anche altri paesi, oggi considerati modelli di solidità, hanno trasgredito i parametri di Maastricht e si sono serviti del loro peso politico per evitare la procedure di infrazione da parte della Commissione europea. Se così oggi l’Unione monetaria soffre la debolezza di alcuni paesi periferici, il vero problema di fondo resta comunque la contraddizione di un’area monetaria unica senza la presenza dello Stato: contraddizione che impedisce di governare in modo unitario l’economia, di ammortizzare gli shock asimmetrici, di contenere il divario tra i paesi più competitivi e quelli più deboli, di sviluppare la solidarietà tra i partner.

Davanti alla crisi economica e al rischio di sbriciolamento dell’Unione monetaria i governi dell’Eurozona sono stati costretti a trovare un accordo per evitare il default dapprima della Grecia e poi dell’Irlanda e del Portogallo. Nel maggio 2010, dopo una lunga resistenza da parte tedesca, è stato creato un Fondo salvaStati, cui è stato associato anche il FMI, del valore di 440 miliardi di euro, di cui 110 sono stati prestati alla Grecia per rifinanziare il proprio debito sovrano, dietro l’impegno concreto di rimettere in ordine i propri conti pubblici. Il novembre successivo anche l’Irlanda davanti al tracollo del suo sistema bancario ha accettato l’aiuto di Bruxelles, impegnandosi anch’essa ad una serie di severe riforme economiche e fiscali. Intanto il Governo Merkel si è fatto promotore insieme alla Francia di una riforma del Trattato di Lisbona che permettesse la creazione di un Meccanismo di stabilità permanente per evitare il default degli Stati e proteggere l’euro. Il Consiglio europeo del 16 dicembre 2010 ha approvato così una modifica dell’art.136 del Trattato di Lisbona prevedendo la creazione, a partire dal 2013, di un Meccanismo di stabilità per la zona euro «da attivare se indispensabile».

Ciononostante, poiché la creazione del Meccanismo di stabilità – comunque ancora oggetto di negoziazioni tra i governi circa i dettagli della sua creazione e delle sue funzioni – è destinato a limitarsi ad un’azione tampone delle singole crisi degli Stati membri, la decisione non ha saputo arrestare i fenomeni speculativi e scongiurare il pericolo di effetto domino all’interno dell’Eurozona. Nei primi mesi del 2011 infatti altri Paesi, in primis Portogallo e Spagna, già sottoposti ad un forte stress sui mercati internazionali, hanno sofferto gravissimi attacchi speculativi.

In questo contesto di profonda preoccupazione, finalmente alcuni esponenti del governo tedesco hanno richiamato la necessità di procedere con l’integrazione economica e politica dell’Eurozona. Parlando alla Humboldt Universität di Berlino, il ministro delle Finanze della Repubblica federale, Wolfgang Schäuble ha proposto una serie di riforme volte a superare la crisi e a mettere l’euro in sicurezza una volta per tutte. Innanzitutto Schäuble ha proposto di rafforzare il Patto di stabilità attraverso l’inserimento di sanzioni più severe ed automatiche e di rendere il fondo salvaStati più capiente e soprattutto permanente. In secondo luogo il ministro delle Finanze tedesco ha proposto un Patto per la competitività per l’Eurozona, già discusso col governo francese, che si sostanzia in un processo di convergenza delle politiche economiche e sociali degli Stati membri dell’Unione monetaria, nonché in un controllo reciproco sulle politiche fiscali. Rimanendo critico circa una riforma dei trattati esistenti, Schäuble ha quindi suggerito di avviare una serie di cooperazioni rafforzate, che operino secondo un metodo intergovernativo, per avanzare nei settori dell’integrazione delle politiche sociali e fiscali. La proposta tedesca, subito appoggiata dalla Francia, è stata sottoposta agli altri membri dell’Unione, che in prima battuta si sono dimostrati scettici, soprattutto a causa dei pesanti tagli alla spesa pubblica richiesti con prepotenza dalla Germania. Tuttavia davanti al protrarsi della crisi, grazie anche alle mediazioni della Commissione e della presidenza dell’Unione, a fine marzo si è giunti finalmente ad un accordo. Oltre a rafforzare il Meccanismo di stabilità della moneta unica, i membri dell’Eurozona hanno deciso di avviare un coordinamento più stretto delle loro politiche economiche e sociali. A questo proposito è stata individuata una serie di provvedimenti specifici che i singoli Stati membri si sono impegnati ad adottare per aumentare la competitività e l’occupazione, nonché per concorrere alla stabilità delle proprie finanze pubbliche e del sistema finanziario. Si tratta essenzialmente di un’ampia serie di riforme, dal mercato del lavoro alle politiche fiscali, al sistema pensionistico.

Al di là dell’impegno assunto a fine marzo bisognerà vedere fino a che punto si concretizzerà questa convergenza delle politiche dei membri dell’Eurozona, che ancora una volta dipende dall’impegno dei singoli Stati di fare le riforme, ovvero dal buon senso della classe politica di garantire una solidarietà europea di fondo alla luce dell’interesse generale. Segnali inquietanti arrivano dall’ascesa dei partiti euroscettici in Finlandia, così come dal montare un po’ in tutti i paesi europei della marea populista. Grave è anche la debolezza del governo portoghese, che è caduto davanti al voto sulle riforme interne richieste da Bruxelles; così come rimane drammatica la crisi che continua ad attanagliare la Grecia, che ha dovuto richiedere un ulteriore prestito e che è sempre più scossa dall’acuirsi della tensione sociale e da quella politica che ne deriva. Eppure il Patto per la competitività, pur non costituendo ancora un passo sufficiente per rilanciare il processo di integrazione politica del continente, resta comunque un progetto ricco di potenzialità. Innanzitutto bisogna notare il ruolo del governo tedesco nella gestione della crisi, che pur con mille difficoltà e titubanze, ha finalmente compreso il pericolo che la Germania correrebbe in seguito ad un ipotetico crollo dell’Unione monetaria, assumendosi così le proprie responsabilità per evitare un simile scenario. In secondo luogo è positivo il configurarsi di un’integrazione a più velocità, con l’Eurogruppo che distanzia i paesi più euroscettici come il Regno Unito e la Danimarca. Evidentemente il Patto per l’euro resta comunque insufficiente nella misura in cui la convergenza delle politiche fiscali ed economiche viene proposta attraverso il metodo intergovernativo, che difficilmente manterrà l’Unione abbastanza compatta per poterle fare compiere le riforme necessarie per la stabilità e soprattutto per la crescita, che resta il fattore determinante per risolvere sia la crisi finanziaria che quella economica.

In questo quadro, tocca allora ai federalisti rilanciare il processo costituente per la creazione di una sovranità europea autentica, indipendente dagli egoismi dei paesi membri. E’ questa una prospettiva che nella crisi sarà destinata ad emergere al di là dell’euroscetticismo e della miopia della classe dirigente. Finché la prospettiva federalista rimarrà in piedi nel dibattito politico, gli Stati membri dovranno fare i conti con la scelta irrevocabile di portare a compimento l’integrazione del Continente, essendo questo l’unico modo non solo per mettere al sicuro l’euro, ma anche per assicurare all’Europa un ruolo nel nuovo mondo multipolare.

 

 

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