Come valutare i risultati del Consiglio del 19-20 dicembre scorso in merito all’unione bancaria? Troppo poco e troppo diluito nel tempo quanto è stato deciso di avviare in una fase ancora così rischiosa per l’eurozona nel suo insieme e soprattutto in cui la possibilità della ripresa degli Stati più fragili e indebitati non è ancora affatto garantita? Oppure una svolta, che apre ad un nuovo slancio in direzione dell’integrazione sempre più stretta e profonda dei paesi euro? Molti commentatori hanno infatti voluto definire “storiche” le decisioni prese, perché al di là delle farraginosità del processo decisionale impostato con il Single Resolution Board e della lentezza della transizione prevista per la messa a regime del nuovo fondo europeo – tutti elementi che potranno comunque essere migliorati nel corso delle trattative ancora aperte, in particolare con il Parlamento europeo – il punto di svolta è costituito dall’affermazione del principio della mutualizzazione dei rischi che di fatto viene sancita con la nascita del nuovo meccanismo per l’eventuale salvataggio delle banche.
Per chi è convinto della necessità, e della possibilità, di traghettare l’unione monetaria verso l’unione politica, il punto decisivo sembra proprio quest’ultimo, con la scelta, da un lato, di affermare il principio del controllo comune di un sistema bancario che, con la creazione della moneta europea, non può più permettersi di essere ancora nazionale; e con l’avvio, dall’altro lato, di una condivisione dei problemi che è condizione necessaria per trasformare l’attuale realtà frammentata in un insieme unitario. Importantissima, dal punto di vista della solidità del sistema europeo, è l’affermazione della logica del rafforzamento del potere di sorveglianza e di dissuasione della BCE e degli organismi preposti per evitare i due estremi potenzialmente catastrofici per qualsiasi sistema finanziario: il salvataggio e la bancarotta. Ma, soprattutto, come accade per ogni passo compiuto nella costruzione europea, oltre alla natura tecnica della decisone presa, è altrettanto importante la valutazione della direzione di marcia che tale decisione indica. La storia del processo europeo dimostra infatti che anche nei momenti di crisi acuta, come l’attuale, in cui emerge nettamente l’alternativa drammatica tra “unirsi o perire”, la resistenza a trasferire in un sol colpo la sovranità nazionale creando una sovranità federale rimane così forte da impedire il passaggio rapido e netto a quest’ultima; le strategie che gli Stati sono in grado di adottare rimangono comunque quelle di “un passo alla volta”. E’ allora assolutamente essenziale che i passi non solo siano continui, uno dopo l’altro, ma soprattutto che siano indirizzati verso il traguardo giusto. Di fatto, la direzione e la roadmap da seguire (e che gli Stati dimostrano di aver faticosamente imboccato) sono quelle fornite dalla Commissione con il documento For a deep and genuine EMU del dicembre del 2012, in cui si indica la necessità della progressiva costruzione delle quattro unioni (bancaria, fiscale, economica e politica).
L’unione bancaria è dunque una tappa necessaria di questo cammino. Certamente non è ancora sufficiente, come ha ricordato ancora Mario Draghi al Parlamento europeo lo scorso 16 dicembre, sottolineando che l’unione bancaria ”è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per rompere il legame tra banche e debiti sovrani e riavviare la crescita sostenibile. Pari condizioni di finanziamento possono essere garantire solo attraverso l’implementazione congiunta di ulteriori misure. Queste includono non solo il consolidamento fiscale e l’attuazione di riforme strutturali, ma anche l’avanzamento nelle altre ‘unioni’. Solo a quel punto possiamo dire di aver creato una vera UEM”. Paradossalmente, quindi, ogni passo in avanti che gli Stati compiono rende ancora più chiara ed evidente la necessità di completare in tempi rapidi anche le altre tappe del cammino, le altre unioni; perché ogni passaggio porta ad un’ulteriore cessione di sovranità e rende sempre più evidente l’urgenza di non limitarsi a trasferire la sovranità ceduta ad organismi gestiti in comune, ma di avviare invece la costruzione di un potere autonomo europeo.
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L’impossibilità di fermarsi all’unione bancaria ha dovuto essere riconosciuta dallo stesso Consiglio europeo del 19-20 dicembre. Nelle sue conclusioni, nel paragrafo sull’Unione economica e monetaria, dopo aver dato il via libera all’unione bancaria, ha infatti invitato “il presidente del Consiglio europeo, in stretta cooperazione con il presidente della Commissione europea, a proseguire i lavori su un sistema di accordi contrattuali reciprocamente concertati e meccanismi di solidarietà correlati, e a riferire al Consiglio europeo nella riunione dell'ottobre del 2014 nella prospettiva di giungere a un accordo complessivo su entrambi gli elementi”. Anche se su questo fronte il negoziato si annuncia difficile, alla fine un accordo dovrà essere trovato, perché si tratta di un passaggio che costituisce, ancora una volta, una condizione necessaria per la sopravvivenza dell’euro. La Germania ha infatti ragione nel pretendere che si creino dei vincoli di politica economica capaci di far convergere gli standard di competitività di tutti i paesi euro. La storia dei primi dieci anni di vita della moneta unica dimostra che tante politiche economiche “sovrane” quanti sono i paesi membri dell’area euro comportano un aumento del divario tra le differenti economie, perché gli Stati che hanno bisogno di riforme strutturali tendono a rimanere vittima delle stesse cattive abitudini politiche che sono alla base delle loro difficoltà e a non riuscire a perseguire i comportamenti virtuosi necessari per avviare un nuovo ciclo di crescita su basi più sane sostenibili. Di qui la proposta di creare un sistema di accordi contrattuali vincolanti con le autorità europee. Al tempo stesso, la richiesta, in particolare italiana e francese, di creare una capacità finanziaria autonoma dell’eurozona con la quale incentivare le economie di quei paesi (creando quindi meccanismi di solidarietà correlati agli accordi contrattuali) è altrettanto giusta, perché solo costruendo una capacità di redistribuzione a livello europeo, che sia ordinata e collegata ad un potere di intervento politico, si può spezzare il circolo vizioso dell’austerità senza crescita. Notoriamente il problema risiede nel fatto che in assenza di una capacità fiscale autonoma dell’eurozona non è possibile neppure un bilancio autonomo, che non sia cioè il frutto di semplici trasferimenti da parte degli Stati e che quindi non si traduca, come accade ora, in un meccanismo di solidarietà in ultima istanza “orizzontale”, tra Stati sovrani. La Germania teme, giustamente, che si crei un meccanismo che disincentiva gli sforzi dei paesi più fragili e che sulle spalle dei cittadini tedeschi si accumuli un peso insopportabile, che non sarebbero in grado di reggere. L’unica soluzione possibile consiste allora nel creare le condizioni per la nascita effettiva di una capacità fiscale dell’eurozona, di un bilancio autonomo, e di un potere di intervento a livello europeo in grado di impedire che il meccanismo di solidarietà diventi una via di fuga per gli Stati che non vogliono attuare le riforme e li spinga (e sostenga) invece in questa direzione. Si tratta di passaggi, a livello europeo, che nella loro piena realizzazione necessitano sicuramente di una riforma dei trattati, ma i cui primi passi possono essere avviati anche a trattati invariati, grazie a modifiche minime da varare con procedura semplificata, o ricorrendo a trattati intergovernativi esterni, come è avvenuto per il MES e come si è ripetuto per l’unione bancaria, con il vantaggio di togliere il potere di veto alla Gran Bretagna, ostile a questi avanzamenti, e di rendere rapido l’iter per l’entrata in vigore. Il punto è pertanto iniziare a procedere in questa direzione e preparare, contemporaneamente, il terreno per una riforma che modifichi i trattati in modo da creare gli strumenti per un governo autonomo e democratico dell’eurozona, riorganizzando l’Unione europea nel suo complesso in modo da rendere compatibile questo livello dell’unione politica dell’area euro con il mercato unico e l’acquis per i paesi che non vogliono entrare nella moneta unica.
E’ evidente che Germania, Francia e Italia devono avere la lungimiranza di preparare, in questo percorso passo dopo passo, gli sviluppi che, soli, possono garantire gli stessi passaggi intermedi, perché permettono di creare il clima di fiducia indispensabile per qualsiasi accordo. Accordi contrattuali e meccanismi di solidarietà correlati devono pertanto essere l’occasione per avviare, contemporaneamente, il dibattito sui passaggi necessari per avviare la nascita dell’unione politica (e con essa, quella economica e fiscale) dell’eurozona.
Di qui ad ottobre 2014 i governi, le istituzioni europee, i partiti, sono quindi chiamati a giocare una partita cruciale. Le elezioni europee saranno un primo test della loro capacità di trasmettere ai cittadini sfiduciati il messaggio di una forte volontà di rendere l’Europa all’altezza del grande progetto di civiltà che è alla base della sua nascita e che continua a rappresentare la sola speranza per un futuro di progresso per tutti gli europei.