Nessun grande progetto politico si può affermare se non è in grado di suscitare negli individui chiamati a sostenerlo l’aspettativa di un futuro di pace e progresso.
Il progetto europeo non sfugge a questa logica. Da anni, e non solo dopo la bocciatura del Trattato costituzionale europeo da parte della maggioranza dei cittadini francesi ed olandesi, esso sembra aver perso il suo slancio ideale e non riesce più a mobilitare energie materiali e morali paragonabili a quelle che hanno accompagnato il raggiungimento delle tappe più importanti del processo di integrazione. Il fatto che dopo l’introduzione dell’euro il modello comunitario europeo abbia esteso, con l’allargamento, la propria influenza territoriale, senza tuttavia compiersi come disegno politico, pone una seria ipoteca sulla possibilità stessa che l’Unione europea, ormai priva di qualsiasi centro di aggregazione, possa sopravvivere. Nessuno sembra rendersi conto delle cause che sono all’origine di questa crisi, al punto che l’inadeguatezza dell’Europa nei confronti del nuovo ordine che si va formando e l’ingovernabilità economica e politica dell’Unione europea vengono generalmente attribuiti ad un difetto – considerato ancora colmabile – di cooperazione fra gli Stati, o di armonizzazione delle norme, o di codecisione tra le istituzioni europee e quelle nazionali.
Il fatto è invece che la crisi dell’Unione europea rischia di diventare irreversibile se non si riuscirà al più presto a distinguere il quadro in cui è ancora possibile prefiggersi di realizzare il progetto dell’unità politica dell’Europa da quello dell’Unione allargata in cui questo progetto non è più perseguibile.
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Per cercare di uscire da questa situazione la maggior parte delle forze politiche e dei governi propone di proseguire sulla strada delle ratifiche del Trattato costituzionale in modo da guadagnar tempo fino alla metà del 2006, quando il Consiglio europeo riesaminerà il dossier. L’esperienza fatta finora dovrebbe mettere in guardia contro l’illusione di riuscire ad aggregare consensi attorno a questa riforma dei Trattati. Occorrerebbe prendere strade nuove. Ma per farlo gli europei dovrebbero innanzitutto incominciare a prendere coscienza di almeno tre dati di fatto. Il primo riguarda la situazione internazionale: in un quadro multipolare mondiale ancora fortemente squilibrato, ma sempre più centrato sui rapporti strategici tra USA e potenze asiatiche, gli europei divisi sono destinati a non contare nulla. Il secondo dato di fatto riguarda gli effetti dell’allargamento: l’Unione europea a venticinque – ventotto nel 2007 – è diventata un’area di libero scambio dove le istituzioni a suo tempo concepite come organi embrionali di un sistema politico sovranazionale (Parlamento europeo, Commissione, Banca centrale europea), sono destinate ad essere sempre più relegate a svolgere un ruolo subalterno e mai di centri di decisione autonoma in ultima istanza rispetto a quelle nazionali. Il terzo dato di fatto è costituito dall’evidente rigetto che ormai manifesta gran parte dell’opinione pubblica nei vari paesi nei confronti della retorica europeista e celebrativa delle istituzioni dell’Unione europea.
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Alcune voci, oltre a quelle dei federalisti europei che hanno avviato l’azione per lo Stato federale europeo, incominciano a levarsi per mettere in discussione la riformabilità dell’Unione europea. Fra queste si possono segnalare quattro significativi interventi, in ordine di tempo quello di Karl Lamers, del Ministro degli esteri francese Philippe DousteBlazy, dell’ex Ambasciatore francese JeanMarie Le Breton e del primo ministro belga Guy Verhofstadt (si vedano gli estratti a pag. 7). Con diversi accenti, sfumature e approfondimenti, costoro hanno preso atto dell’impossibilità di avanzare senza un salto istituzionale che può essere perseguito solo al di fuori dei Trattati esistenti a partire da un avanguardia di paesi.
Lamers, DousteBlazy, Le Breton e Verhofstadt hanno messo in guardia le rispettive opinioni pubbliche nazionali contro l’illusione di rilanciare il movimento verso l’unità dell’Europa a partire dalle attuali istituzioni europee o da una loro improbabile riforma. Essi in sostanza hanno sostenuto la necessità di rovesciare i termini del problema: non è battendosi per riformare l’Unione europea che si può rilanciare il progetto politico europeo, ma è facendo prendercorpo a quest’ultimo, cioè ponendo le premesse per la nascita di una federazione nella più grande confederazione rappresentata dall’Unione europea, che sarà possibile fondare su basi più solide nuove istituzioni europee.
Si tratta di voci ancora isolate, ma autorevoli, che testimoniano della crescente preoccupazione, se non ancora di una volontà d’azione, di promuovere una svolta nel processo di unificazione europea.
E’su questi temi e su questo terreno che i federalisti, anche in Italia, possono svolgere un importante ruolo, mettendo le classi politiche e le istituzioni nazionali dei paesi fondatori di fronte alle loro responsabilità storiche.