Il rapporto tra Europa e Turchia è ormai arrivato ad un bivio fondamentale. Le scelte che verranno prese nel prossimo futuro determineranno non solo gli equilibri in Medio Oriente, ma saranno decisivi anche per il destino del processo di integrazione europea.
Nel 2005, dopo il Consiglio europeo di Stoccolma, sono iniziate le trattative ufficiali per l’ingresso della Turchia nell’Unione. Le condizioni fissate da Bruxelles sono le stesse poste ad ogni altro candidato: riformare e rafforzare le istituzioni democratiche ed adeguarsi alle condizioni economiche e politiche stabilite dai criteri di Copenaghen; in particolare è stato chiesto alla Turchia di riconoscere Cipro ed il genocidio degli Armeni. Nel complesso si tratta di impegni molto difficili da rispettare per lo Stato turco, specialmente per quanto riguarda il riconoscimento delle proprie colpe recenti, che comportano una condanna severa del nazionalismo. D’altronde proprio qui si gioca il futuro del paese e la sua adesione definitiva ad un modello di politica democratica e di società aperta.
La Turchia oggi vive un periodo di profonde lacerazioni interne che accompagnano il processo di trasformazione in corso. L’alternativa è tra la deriva antidemocratica nelle forme dell’estremismo islamico o, anche per reazione, del nazionalismo fascista – e la direzione tracciata dalle recenti riforme del governo Erdogan, soprattutto in materia di laicità dello Stato e di libertà di stampa, sembra rendere molto concreto questo rischio –; oppure la vittoria delle forze moderate e progressiste che spingono verso una piena integrazione con l’Occidente ed il superamento delle ataviche contraddizioni che impediscono al paese di valorizzare le proprie risorse. Ciò che è certo, comunque, è che l’eredità di Ataturk non basta più alla Turchia. Le istituzioni, gli equilibri di potere, i modelli politici che i turchi hanno seguito e riprodotto per quasi un secolo non assicurano più alla società turca né la prosperità economica, né tanto meno la spinta ideale per guardare con serenità e determinazione al futuro.
Queste contraddizioni sono ancora più evidenti se si osservano da vicino le scelte politiche e le riforme istituzionali degli ultimi anni. Incassato il sì dell’euroburocazia alla candidatura all’Unione, il governo Erdogan si è impegnato in una serie di riforme costituzionali piuttosto ambivalenti. Il progetto politico portato avanti dall’AKP consiste proprio nel cercare di combinare, in una visione difficile da comprendere per gli Europei, i principi della tradizione islamica con quelli dell’antistatalismo liberista. Fra i punti fondamentali della riforma costituzionale compaiono da una parte l’affermazione dei diritti individuali, soprattutto economici, ed il riconoscimento delle autonomie locali; dall’altra l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, l’aumento delle decisioni da prendere a maggioranza semplice ed un ridimensionamento dei poteri della Corte Costituzionale, da sempre baluardo della difesa della laicità dello Stato. Ancora irrisolte rimangono, inoltre, sia la questione del “crimine di attentato all’identità nazionale turca” prevista dall’articolo 301 del codice penale, sia l’effettiva devoluzione dei poteri di autogoverno alle regioni orientali a maggioranza curda. Resta infine difficile sapere se davvero la riforma costituzionale riuscirà ad essere approvata. La forte contrarietà del partito di opposizione e del Presidente della Repubblica getta infatti molte ombre su questo progetto perseguito da Erdogan. Inoltre, se anche tutto ciò passasse, non sembra però sufficiente per dare risposte strutturali e precise alla crisi del paese, che è soprattutto una crisi di identità.
Sarebbe superficiale liquidare il problema della vocazione europea della Turchia con un semplice sì o con un no. Come la Russia, così la Turchia è un paese a metà tra l’Europa e l’Asia, ed è proprio questa caratteristica a renderla così ricca ed importante. Ma ciò che lascia perplessi è la diagnosi sullo stato di salute delle sue istituzioni democratiche ed il grado di maturità della coscienza civica. Il processo di modernizzazione e di laicizzazione che ha reso la Turchia un unicum nel panorama degli Stati musulmani, d’altronde, è stato reso possibile proprio da quello stesso esercito che fa ancora del nazionalismo il suo baluardo e che ha impedito il pieno radicamento nel paese delle istituzioni democratiche e del pensiero liberale. Per questo, la strada da compiere per raggiungere i futuri partner europei sulla via della democrazia è ancora lunga e richiederà tempo. L’importante però è che il paese non si perda lungo il percorso, e questo dipenderà non solo dalle capacità della politica e della società turche, ma anche dalle scelte del vecchio continente. L’atteggiamento che l’Unione europea ha dimostrato negli ultimi anni verso la Turchia è stato infatti profondamente irresponsabile. L’assenza di un vero progetto politico ha spinto l’Unione ad uno sconsiderato processo di allargamento che ha di fatto bloccato lo slancio verso l’unificazione, riducendo l’Europa a poco più di un grande mercato unico. Non deve allora stupire che la burocrazia europea, sostenuta da paesi antifederalisti come la Gran Bretagna e dalle pressioni statunitensi, abbia accettato la candidatura della Turchia senza porsi il problema delle conseguenze che questa adesione determinerebbe in assenza di un precedente approfondimento politico. Allo stesso tempo molti leader europei, bisognosi di rassicurare le opinioni pubbliche nazionali e spaventati dai problemi interni della Turchia, rifiutano pubblicamente l’ingresso di questo paese nell’Unione. In effetti, nel caso di una piena adesione oggi della Turchia alle istituzioni europee, queste diventerebbero (viste le dimensioni del paese, che ben presto supererà anche la Germania in termini di popolazione, e quelle del suo esercito, già oggi il più forte rispetto a quello degli altri membri dell’Ue) dipendenti dall’andamento di un paese politicamente instabile, ancorato a logiche nazionaliste ed in preda a profondi squilibri sociali ed economici. In realtà anche i nuovi membri dell’Europa centroorientale presentano caratteristiche simili; ma queste nel caso della Turchia sono molto più accentuate. D’altro canto rifiutare a questo punto di proseguire sulla strada dell’integrazione dello Stato turco in Europa darebbe un colpo mortale alla prospettiva di una sua definitiva democratizzazione e condannerebbe le forze progressiste interne ad una sicura e definitiva sconfitta.
Da un certo punto di vista, avendo l’allargamento del 2005 reso comunque impossibile ogni ulteriore approfondimento politico all’unanimità, verrebbe quasi da domandarsi se non valga comunque la pena accogliere la Turchia già adesso per approfittare dei vantaggi economici e strategici che la sua adesione sembrerebbe garantire. Ma i rischi sarebbero enormi. Innanzitutto, l’opinione pubblica europea, ancora fortemente contraria, finirebbe per scostarsi ancora di più dal progetto europeo. Inoltre, l’adesione della Turchia ad un’Europa mercato, priva di uno nucleo politico, potrebbe veramente sconvolgere in breve tempo l’intera Unione, che già adesso fatica a funzionare e a tutelare le conquiste raggiunte. Anche perché è prevedibile che i turchi, per quanto beneficati in termini di democrazia e benessere, sarebbero portati, ancora più dei paesi dell’Est, a ricambiare l’Unione con una politica nazionalista e a rifiutare le future riforme di cui l’Europa mercato avrà comunque bisogno anche dopo Lisbona. Benché il futuro dell’integrazione europea stia tutto nel ruolo delle avanguardie e nell’ipotesi delle due velocità, è sicuramente meglio che la creazione del nucleo federale avvenga in un quadro comunitario ancora vagamente stabile ed omogeneo, e che non debba diventare l’extrema ratio a fronte del crollo dell’edificio dell’Unione. Infatti, per quanto possa sembrare suggestiva la possibilità che l’ulteriore crisi delle istituzioni europee, determinata dalla piena adesione della Turchia, spinga un’avanguardia di Stati verso la scelta definitiva dell’unificazione, vale davvero la pena di augurarsi il “tanto peggio, tanto meglio”?
Certo che se si creasse in tempi brevi un’Europa politica tra pochi Stati, l’adesione della Turchia al mercato e alla moneta europea sarebbe un grande vantaggio per tutti. La Turchia finalmente potrebbe agganciarsi al sistema occidentale ed iniziare un ulteriore processo di crescita civile e democratica. Dall’altra parte l’Europa unita godrebbe di un partner prezioso da integrare sempre di più e con cui realizzare una politica in Medio Oriente tutta volta alla stabilità e allo sviluppo di quella regione. Ci troviamo davanti ad una speranza difficile da realizzare. Ma il progetto politico è buono e può funzionare. L’Europa ha bisogno di farsi Stato per se stessa e per il mondo. E’ quanto richiede la politica della realtà. Se invece si vuole cedere all’opportunismo o al buonismo ben vengano nell’ “Europa che non c’è” tanto la Turchia, quanto Israele, la Russia e tutti gli altri. Il premio Nobel Pamuk da anni invita i paesi europei ad accettare la Turchia nell’Unione. Non è con i facili sì o con i drastici no che si può accogliere il suo invito. L’unica risposta convincente può essere data dalla rivoluzione interna che l’Unione europea deve realizzare, creando uno Stato federale, a partire da un’avanguardia di paesi.