I tragici fatti accaduti ad Haiti, ripropongono, in modo sempre più evidente, le difficoltà delle organizzazioni internazionali nel controllare, o ancor meglio, nel riuscire a prevenire il fatto che alcuni paesi precipitino nella guerra civile o nel caos politico.
Haiti, in questo contesto, è l'ennesimo esempio della incapacità dell'ONU, della organizzazione regionale (CARIBE) e continentale (OSA) di salvaguardare la democrazia e lo sviluppo di un singolo paese. L'intervento è stato ancora una volta tardivo e, fatto grave, il Presidente deposto, Aristide, dieci anni fa era stato eletto ed acclamato come il primo presidente democratico dell'isola, salvo poi trasformarsi in un nuovo despota accusato di furto, nepotismo e crimini contro la popolazione. Queste pesanti accuse hanno indotto la comunità internazionale ad appoggiare le truppe armate capeggiate da Guy Philippe e Louis Chamblain che hanno deposto il presidente in carica. La cosa sconcertante è che entrambi questi nuovi leader (a suo tempo fuoriusciti nella vicina Repubblica Dominicana) sono rispettivamente accusati di connubio con i narcotrafficanti e di essere stati a capo delle squadre della morte nel 1991. Non propriamente due esempi di democrazia.
Ma Haiti, il paese più povero del continente americano, come altri paesi del mondo, rientra nel novero delle nazioni "dimenticate". Nazioni che non hanno ricchezze naturali e che sono ai margini degli scenari geopolitici. Nazioni di cui i media si interessano solo quando scoppiano clamorosi episodi di violenza o comunque episodi particolarmente drammatici.
Chi sa o ricorda quanto è avvenuto o sta avvenendo in Ruanda, Burundi, piuttosto che in Uganda o in Laos o in Guatemala dove, per esempio, in trenta anni di guerra civile sono morti o scomparse più di duecentomila persone su una popolazione totale di 13 milioni?
Vi sono nazioni povere che, proprio perché poste per ragioni storiche o economiche, ai margini della grande politica internazionale non hanno una propria capacità di sviluppare la democrazia e sono perennemente sconvolti da guerre civili, per lo più tribali, oppure governati da dure dittature. Come deve comportarsi la comunità internazionale nei confronti di questi paesi? Non è infatti accettabile che si intervenga solo nei momenti in cui la violenza esplode in modo incontrollabile. L'ONU non ha una propria capacità di intervento né potrà mai averlo fintanto che non subentri una sua radicale riorganizzazione politica ed istituzionale, che però è legata agli equilibri di potere mondiali. Gli USA da soli, non sono in grado di garantire l'ordine internazionale, trasformandosi in poliziotti, come dimostrano non solo le vicende in Iraq, ma lo stesso caso di Haiti, dove, nel 1991, gli USA intervennero con oltre 20.000 marines per reinsediare Aristide che, dopo la sua elezione, era stato estromesso dal governo con un colpo di stato, mentre questa volta non hanno potuto inviare che un contingente di circa 1000 marines e hanno avuto bisogno del supporto di truppe francesi e canadesi.
L'Unione europea, d'altra parte, come l'ONU, è vittima della propria impotenza politica e militare. L'unica strada percorribile appare quella che le singole comunità regionali procedano alla realizzazioni di corpi di polizia e militari in grado di intervenire per ristabilire l'ordine nei paesi in cui domina il caos e la violenza. Su base regionale questo tipo di intervento appare più credibile e realizzabile che non quello di una ONU quanto mai lenta e vittima dei ritardi dettati dalla politica delle singole potenze. Battersi però per la realizzazione di corpi di polizia a livello regionale significa, di fatto, affrontare anche i nodi dell'unità politica: chi guida ed organizza anche a livello regionale questi eserciti di cosiddetto pronto intervento? Sono i temi che l'Europa ha già affrontato, senza volerli risolvere, ai tempi della CED o della recente crisi in Jugoslavia, non riuscendo a diventare per il resto del mondo un modello capace di dimostrare la possibilità del superamento delle sovranità nazionali. Sono però anche i nodi di fondo da cui dipende la possibilità di garantire un giorno anche a quei paesi che sono ai margini della grande politica il diritto alla pace e allo sviluppo.

 

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