La crisi del debito sovrano dell’area euro ha messo a nudo in modo drammatico i difetti dell’attuale assetto istituzionale dell’Unione europea. Il sistema di governance economica concepito a Maastricht non si è mostrato infatti adatto ad affrontare una crisi sistemica, qual è quella in cui ci troviamo, e il vuoto decisionale creato dall’assenza di un reale governo dell’Unione è stato riempito a fatica dal farraginoso metodo comunitario.

Messe con le spalle al muro dalla gravità della situazione, le istituzioni europee si sono risolte a prendere misure drastiche, impensabili fino ad un paio di anni fa. Tuttavia, le evidenti divisioni interne – ideologiche, politiche ed economiche –, e il costante prevalere di interessi nazionali ed elettorali sui sentimenti di solidarietà europea, hanno comportato un’eccessiva lentezza nell’adozione delle decisioni, il più delle volte prese quando la loro inefficacia, a causa dell’aggravarsi della crisi, era già manifesta. Questo modo di agire, reattivo piuttosto che fattivo, così come l’eccessivo concentrarsi, in un crescendo di isteria e dogmatismo, sulle misure di austerità e consolidamento delle finanze pubbliche, hanno accelerato il degradarsi della situazione, trasformando il problema di un paese il cui debito pubblico ammonta a circa il 3% del PIL dell’eurozona, la Grecia, in una pericolosa crisi che, come in un inarrestabile domino, ha colpito in sequenza, dopo il paese ellenico, Irlanda, Portogallo e Spagna per giungere fino a noi, paese fondatore della Comunità europea ed una delle maggiori economie al mondo, ultimo bastione difensivo prima del collasso dei sistemi bancari francese e tedesco e, conseguentemente, della moneta unica.

Come si è giunti a tutto questo? Se si tratta di stabilizzare, ed eventualmente ridurre, il rapporto debito pubblicoPIL di un paese non ci si può concentrare solo sul consolidamento delle finanze pubbliche. Anzi, focalizzando l’attenzione solo sulla riduzione del disavanzo pubblico, attraverso misure di austerità e tagli al bilancio, dall’inevitabile impatto depressivo (la recessione in Grecia causerà quest’anno una perdita di oltre il 5% del PIL), si cade in un pericoloso circolo vizioso, nel quale i tagli stabiliti in base a un determinato andamento economico peggiorano le prospettive di crescita futura (o aggravano la recessione), rendendo necessaria l’adozione di misure aggiuntive che peggiorano ulteriormente l’andamento dell’economia, e così via.

Al di là di qualsiasi considerazione di equità e giustizia sociale, che pure conta molto, anche dal puro punto di vista economico le misure adottate vanno quindi nella direzione sbagliata.

Se senza crescita economica le finanze pubbliche non si consolidano, il debito non si riduce e la crisi dell’euro non rientra, come sostenere lo sviluppo? È fin troppo evidente che lo stimolo all’economia non può arrivare dai singoli paesi, alle prese con importanti problemi di bilancio. Ed è proprio per questo che si è fatta strada l’idea degli Eurobonds. Quella di emettere euroobbligazioni per finanziare programmi europei di investimento pubblico non è in realtà una proposta nuova (ci aveva già pensato Delors nel 1993). La vera novità delle ultime proposte, che trovano in Tremonti e Juncker la massima espressione politica, è quella di attribuire all’emissione di Eurobonds la doppia funzione di stimolo alla crescita e di ristrutturazione dei debiti nazionali. Da un lato, trasferendo il debito pubblico nazionale dei paesi in crisi a livello europeo si risolverebbe una volta per tutte il problema delle crisi di finanza pubblica dell’area euro. Dall’altro, finanziando un ampio programma europeo di investimenti pubblici in infrastrutture, ricerca e sviluppo e innovazione tecnologica, si sosterrebbe la crescita e favorirebbe la transizione verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile.

A questa soluzione si oppongono in modo decisivo la Merkel e gli altri fautori del consolidamento a oltranza che vedono come fumo negli occhi l’idea di risolvere la crisi del debito con la creazione di nuovo debito. In realtà, a livello di eurozona, il rapporto debito pubblicoPIL è inferiore all’80% e, in caso di robusta crescita economica, scenderebbe rapidamente sotto il limite generalmente accettato del 60%. Senza contare che l’indebitamento per la produzione di beni pubblici, dei cui benefici godrebbero anche le generazioni future, non va contro quel vincolo di solidarietà intergenerazionale che impone di far pagare i costi di un investimento pubblico a coloro che beneficeranno dei suoi effetti.

L’emissione di euroobbligazioni non va vista però come il punto di arrivo. Rappresenta anzi, insieme all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e/o sulle emissioni di CO2, il necessario punto di partenza per il completamento di quel processo di unificazione politica che, passando per la creazione dell’Unione fiscale, porterebbe alla nascita della Federazione europea. E’ proprio questa prospettiva politica che permette di inquadrare il valore profondo di un’innovazione come gli Eurobonds, e questo spiega anche in quale ottica essa debba essere collocata per poter superare l’opposizione, in particolare, dei tedeschi.

Nel nuovo ordine mondiale che va delineandosi le potenze emergenti, BRICS e Cina, si offrono di sostenere l’economia europea comprando titoli di debito pubblico. Possiamo accettare il loro aiuto senza agire, condannandoci così all’inevitabile declino. O possiamo decidere di fare una scelta coraggiosa quanto inevitabile, quella del salto federale, e ridare un futuro al continente europeo.

I costi dell’incompiuta costruzione dell’unità europea sono ormai sotto gli occhi di tutti. Voi da che parte state?

 

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