Come ci ricorda bene Jacques Juliard, in un articolo apparso sul Nouvel Observateur il 27 novembre 2003, è da più di dieci anni, cioè dai tempi di Maastricht e della conseguente introduzione dell’Euro, che l’Unione europea fa un passo avanti per farne due indietro, essendo diventata ormai, da grande progetto politico quale era, una mera espressione geografica. In questi due mesi, nel mezzo del tentativo febbrile di trovare un accordo sulla nuova “Costituzione”, l’Europa è riuscita a fare i due passi indietro di prammatica; ma purtroppo è molto più difficile immaginare, visto lo stato del dibattito, quale possa essere quello in avanti.

In ordine cronologico il primo, clamoroso, passo indietro risale alla riunione Ecofin del 25 novembre, in cui si è deciso a maggioranza di derogare le regole del Patto di stabilità per concedere un po’ più di tempo a Francia e Germania per sistemare i rispettivi conti pubblici. Con questa scelta i Ministri delle Finanze hanno sollevato un coro di aspre critiche perché hanno indispettito sia la maggioranza dei paesi membri che vedono con crescente preoccupazione il rafforzamento dell’asse franco-tedesco, e che quindi lamentano il carattere ingiusto del trattamento preteso dai due Stati europei di maggior peso, sia i sostenitori degli attuali equilibri di potere esistenti nell’Unione, e in particolare la Commissione, che in questo frangente si è sentita scavalcata e umiliata.

In realtà non è difficile capire che quanto è successo è semplicemente il frutto di una situazione insostenibile, in cui a fronte di una moneta unica non esiste un potere politico che la governi in nome dell’interesse generale europeo. Una situazione, quindi, che si potrebbe superare solo se, invece di limitarsi ad accusare le parti in causa nel tentativo di non rimetterla in discussione, si accettasse di rispondere alla domanda che l’allora Presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer poneva nel ’98: “L’Unione politica è piuttosto una condizione o una conseguenza dell’Unione monetaria?”. Ma i Paesi europei, di fronte a questo quesito, scelgono semplicemente di non rispondere, o meglio di optare, nell’incertezza, per la tesi in base alla quale l’unione politica non costituisce né una condizione, né una conseguenza dell’Unione monetaria. Essi, insieme alla Commissione, fedele custode del mantenimento delle contraddizioni in cui si dibatte l’Europa, continuano a far finta che l’Unione monetaria possa durare nel tempo sulla base di regole puramente restrittive, concordate tra Stati sovrani i quali dovrebbero applicarle, senza che esista un potere superiore ad imporglielo, anche quando queste ledono i loro più profondi interessi.

Il secondo passo indietro, che sarebbe forse anche più eclatante del primo se non fosse invece propagandato con tanto fervore come un successo, è il recentissimo accordo a tre, Francia, Germania e Gran Bretagna, sulla difesa. Se si pensa che il punto di partenza delle ambizioni franco-tedesche nella riunione di fine aprile con il Belgio e il Lussemburgo era in teoria quello di avviare un nucleo di difesa europeo autonomo dalla NATO, che avrebbe dovuto porre le basi di una vera politica estera, è facile cogliere la pochezza dei risultati raggiunti con il sostegno della Gran Bretagna, che garantisce la fedeltà agli Stati Uniti e che infatti ne ottiene senza problemi il beneplacito. Parafrasando Bush, gli europei si attrezzano così a vigilare con più efficienza sui bambini di Sarajevo che devono attraversare la strada per andare a scuola, e continuano a lasciare il problema della guerra (e quindi, per inciso, della pace) a chi sa occuparsene “meglio”, cioè agli americani.

Come possono essere soddisfatti francesi e tedeschi del nulla raggiunto? La risposta si trova nell’ambiguità delle loro aspirazioni. Essi vorrebbero conciliare la nascita di un nucleo di difesa “europea” con il mantenimento della cooperazione tra Stati sovrani. In questa ottica, che limita le prospettive dell’accordo al coordinamento delle rispettive forze militari e alla condivisione di qualche progetto che renda più razionale l’investimento in campo militare, appare chiara la necessità di coinvolgere il Paese militarmente più forte, cioè la Gran Bretagna, mentre la divergenza degli obiettivi politici diventa secondaria, stemperata in un processo di lungo periodo.

La lezione della guerra all’Iraq, da cui le iniziative franco-tedesche erano partite, avrebbe dovuto insegnare invece che il problema è quello di arrivare a fondare un centro di potere europeo capace di avere un ruolo internazionale, diverso ma paritario rispetto a quello degli Stati Uniti. Ma per far propria una simile lezione e trarne le debite conseguenze bisognava avere il coraggio di porre il problema del trasferimento di sovranità a questo nuovo centro di potere europeo; e quindi porre il problema non di un avanguardia di Stati pronti a cooperare nel campo della difesa ma della creazione di un nucleo federale per fondare, all’interno dell’Unione, lo Stato europeo (aperto a tutti i paesi disposti ad aderirvi) responsabile della politica estera e di difesa degli europei.

E’ evidente che l’Europa continuerà a fare passi indietro, e ne farà neanche uno in avanti, finché Francia, Germania e, con loro, gli altri paesi fondatori – su cui ricade la responsabilità storica della costruzione europea – non impareranno questa lezione. Invece il dibattito sull’”Europa a due velocità” non a caso una formula ben più ambigua di quella usata in precedenza della “Federazione nella Confederazione” è già stato incanalato proprio su questa idea delle cooperazioni rafforzate, che dovrebbero permettere ai Paesi che desiderano farlo di cooperare più strettamente nei settori che ritengono più confacenti ai propri interessi. Una riedizione quindi dell’Europe à la carte, in cui gli Stati sovrani creano le proprie alleanze nel quadro dell’Unione e in cui all’evidente disgregazione che questa frammentazione comporta dovrebbe opporsi il fatto che un gruppo di Paesi sarebbe presente in tutti i settori delle cooperazioni rafforzate, costituendo così il “cuore” della nuova Unione. Un’ipotesi assurda – neanche Francia e Germania riuscirebbero ad essere al “cuore” di tutte le cooperazioni perché non potrebbero mantenere un’identità di interessi sufficiente in un quadro del genere , e quindi un tentativo sbagliato e pericolosissimo che probabilmente costituirebbe la fine del processo europeo.

D’altro canto la soluzione non è certo nella “Costituzione” europea che gli Stati non sono riusciti ad approvare a dicembre; essa può rappresentare al massimo un trattato per far funzionare un po’ meglio (forse) l’Unione a 25, in cui i governi nazionali devono far sentire maggiormente la propria voce per bilanciare almeno in parte il deficit democratico – inevitabile in ogni confederazione che affligge l’Europa. Ma allora tutti coloro che hanno a cuore il destino dell’Europa devono capire che non è questa la linea su cui davvero si crea l’avanguardia dei Paesi più avanzati o su cui si fa compiere all’Europa il salto per diventare un potere politico. Come ammoniva Einaudi, facendo un parallelo fra Europa e America, “gli Stati Uniti d’America nacquero … quando la Costituzione del 26 luglio 1788 ebbe cominciamento con le famose parole: We the people of the United States, noi popolo degli Stati Uniti, e cioè non noi tredici Stati, ma noi ‘il popolo intero degli Stati Uniti’, abbiamo deciso di fondare una più perfetta unione.

Con quelle parole, e solo con quelle parole, gli Stati Uniti d’America (crearono) un nuovo Stato non composto da Stati sovrani, ma costituito direttamente da tutto il popolo degli Stati Uniti; e superiore perciò agli Stati creati dalle frazioni dello stesso popolo viventi nei territori degli Stati singoli. Vano è immaginare e farneticare soluzioni intermedie” (*).

(*) Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea, Bologna, 1986, p.62

 

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