La Convenzione europea ha appena terminato i suoi lavori e presentato la nuova bozza di trattato che la CIG dovrà ridiscutere ed approvare. Il risultato che è riuscita a conseguire è esattamente quello che ci si poteva aspettare da un organismo che includeva i rappresentanti a livello nazionale ed europeo di venticinque paesi che hanno un grado di integrazione profondamente diverso, che vivono in modi assolutamente divergenti il processo europeo e che perseguono in questo campo obiettivi incompatibili. Si capisce bene, dunque, l’euforia dell’aver chiuso dei lavori così complessi con un testo concordato tra tutti, anche se si è ben consapevoli che le divergenze sono destinate a riemergere a breve; si capisce un po’ meno, invece, il persistere da parte di alcuni sinceri europeisti dell’illusione che il processo iniziato con Laeken e la Convenzione, nonostante quanto dimostrato dai fatti, porti ad un rafforzamento dell’Unione, e quindi la loro ostinata richiesta di modifiche che in questo contesto sono sia irrealistiche che controproducenti.
Mi riferisco in particolare alla questione del voto a maggioranza nel Consiglio europeo. Anche in questo campo, bisogna prenderne atto, la Convenzione ha fatto quanto ha potuto, o meglio quanto la Gran Bretagna, la Spagna e la Polonia hanno permesso. E’ chiaro, infatti, che finché si mantengono al centro del processo paesi, come appunto la Gran Bretagna, che hanno come obiettivo prioritario la difesa della propria sovranità, il voto a maggioranza non verrà esteso a nessuna materia cruciale, in particolare alla politica estera e di sicurezza o alla fiscalità. Ma il problema non si limita alla possibilità di generalizzare o meno questo principio nel meccanismo istituzionale dell’Unione: la questione cruciale è piuttosto il significato che avrebbe l’introduzione di questa prassi, vale a dire se essa, come molti ritengono, possa bastare di per sé ad introdurre un elemento federale sovranazionale nelle attuali istituzioni europee oppure no.
Un precedente illuminante sotto questo profilo è rappresentato dagli Articles of Confederation, il trattato che legava i tredici stati americani prima della Convenzione di Filadelfia e della creazione della federazione. Gli Articles of Confederation prevedevano che tutte le decisioni venissero prese a maggioranza, in certi casi semplice e in altri con il consenso di 9/13 degli stati membri. Questo non ha impedito che gli Stati contrari o non interessati alle decisioni prese non le rispettassero e che si arrivasse alla situazione di caos e rischio di guerra civile che tutti ben conoscono. Il punto è che finché si rimane in un’Unione fondata sulla sovranità degli Stati membri il sistema del voto a maggioranza per coordinare la politica comune o non funziona o crea tensioni dannose e rischi di involuzione. Lo sottolineavano con estrema chiarezza anche Habermas e Derrida nel loro intervento pubblicato il 31 maggio contemporaneamente su Frankfurter Allgemeine e su Libération e riapparso qualche giorno dopo su Repubblica. Il voto a maggioranza funziona solo se si è all’interno di un sistema in grado di imporre le proprie decisioni anche alla minoranza non favorevole. Ma è chiaro che questa imposizione può esserci solo nel quadro di un potere statuale fondato sul consenso popolare. Finché non si è in questo quadro e la sovranità resta agli Stati, che devono rendere conto ai propri cittadini del loro operato, l’imposizione da parte di un potere esterno privo di legittimità creerebbe solo una situazione insostenibile.
Quindi, finché l’Unione rimane l’organismo volutamente confederale che è prefigurato anche nella nuova costituzione un organismo che si basa sulla doppia legittimità degli Stati e dei cittadini, nel senso che, per quanto riguarda questi ultimi, la cittadinanza europea non ha alcun valore politico ed è semplicemente fondata sulla comunanza di principi e valori culturali, mentre agli Stati viene lasciata la sovranità e la fonte ultima del potere il voto a maggioranza su questioni cruciali semplicemente non può funzionare. Nessuno potrebbe forzare la Gran Bretagna a mettere in atto decisioni europee che non condivide su punti essenziali della propria vita statale. Ne è ben consapevole Giscard che nell’intervista rilasciata a Repubblica il 14 giugno, ad una domanda specifica sull’introduzione del voto a maggioranza nel campo della politica estera, risponde: “Siamo realisti… Ora i tempi non sono maturi: non potrebbe funzionare. Immaginiamo che l’Europa avesse dovuto decidere con un voto a maggioranza sulla guerra in Iraq. Se avesse prevalso il no alla guerra credete davvero che la Gran Bretagna o la Spagna si sarebbero adeguate? O al contrario se l’Europa avesse deciso di combattere a fianco degli Stati Uniti, pensate che la Francia e la Germania avrebbero accettato? Risultato: la lacerazione sarebbe stata ancora più grave”.
L’estensione del voto a maggioranza nelle attuali condizioni, quindi, avrebbe come conseguenza semplicemente la ricerca di compromessi accettabili per tutti, come è avvenuto all’interno della Convenzione; e questo è l’inevitabile corollario di ogni sistema in cui ciascuno Stato persegue il proprio interesse nazionale. Se si vuole che l’Europa abbia davvero un’unica politica estera e di sicurezza, e se si vuole che si crei un legame federale tra gli Stati mem
bri, allora non ci si può limitare a porre la questione del modo in cui vengono prese le decisioni, ma bisogna anche affrontare il problema di come farle rispettare. Questo implica per il potere europeo il controllo dell’esercito, una propria polizia, una solida amministrazione e adeguate risorse finanziarie proprie; vale a dire un potere statuale sovrano, che deve basarsi sulla legittimità data dal consenso dei cittadini. Non esistono alternative reali a questa soluzione.
Per questo è chiaramente impensabile che il salto federale si possa fare con un’iniziativa che coinvolge sin dall’inizio tutti gli Stati membri e, sempre per questo, qualsiasi progetto che voglia essere elaborato a venticinque è destinato a mantenere in vita il meccanismo confederale. Oggi la consapevolezza di che cosa significhi trasformare in qualcosa di concreto la generica aspirazione di rafforzare l’Europa non esiste neanche nel nucleo dei paesi fondatori, che sono i soli che potrebbero farsi carico dell’iniziativa federale. Perciò è essenziale lavorare in questi paesi per fare chiarezza, per tenere sul campo l’alternativa europea vera, senza confondere i termini del problema, senza creare l’illusione che si arrivi alla federazione europea attraverso escamotages o creando contraddizioni che invece sono solo involutive. I federalisti hanno questa precisa responsabilità politica ed è su queste posizioni che devono sfidare i governi e portare la classe politica e i cittadini.