Che possibilità hanno le attuali istituzioni dell’Unione, cioè il Consiglio europeo, il Parlamento europeo e la Commissione, di evolvere in senso federale?

La risposta che si dà a questa domanda è uno degli elementi fondamentali per definire la linea politica federalista riguardo alla nascita dello Stato europeo. Essa permette infatti di chiarire se il potere federale europeo possa nascere da una decisione dell’Unione a 1525, magari prevedendo forme volontarie di opting out per i paesi che non vogliono ancora far parte dello Stato europeo, oppure se possa essere creato inizialmente solo partendo da un primo nucleo di Stati in cui esistono le condizioni per rendere almeno pensabile una simile scelta. La prima ipotesi, infatti, che si scontra con il problema di trovare il modo di neutralizzare l’opposizione fortissima dei membri contrari allo sbocco federale, deve necessariamente basarsi sul presupposto che sia possibile riformare le istituzioni comunitarie in modo graduale e accettabile da parte di tutti e presumere che esse possano evolvere in senso federale in modo quasi automatico e naturale, senza soluzione di continuità tra modello comunitario e modello federale. Nel caso che questi due presupposti si rivelassero infondati è invece lecito domandarsi se le istituzioni dell’Unione, proprio nella misura in cui devono rappresentare e tutelare anche gli Stati contrari allo sbocco sopranazionale, non rappresentino invece un elemento di freno per la nascita della Federazione europea, essendo diventate inevitabilmente custodi degli equilibri esistenti.

Il dibattito in corso sulla riforma della Commissione europea è particolarmente significativo sotto questo profilo. I sostenitori di un rafforzamento delle sue competenze e della sua autorità (che verrebbe accresciuta dal fatto di investire il Presidente mediante il voto del Parlamento europeo) vengono infatti addirittura identificati come “federalisti”, perché mirerebbero a trasformare la Commissione in un vero potere esecutivo europeo. E’ evidente in questa ottica che sia l’indicazione di questo obiettivo che la sua valutazione assolutamente positiva dal punto di vista federalistico nascono proprio dalla speranza che, con l’accordo di tutti, l’Unione possa evolvere in senso federale; la Commissione dei Quindici, presto dei Venticinque, per il fatto di acquisire nuove competenze, dovrebbe diventare un vero governo. Ma ciò di cui non si riesce a tener conto è il fatto che continuerebbe a non avere il requisito essenziale che rende davvero tali i governi: il potere, cioè l’essere inserita in un sistema istituzionale che si fonda sul consenso dei cittadini e che esercita la propria funzione direttamente su di loro, avendo tutti gli strumenti per porre in essere le proprie decisioni senza dover dipendere dal potere “altrui”, nel caso specifico da quello degli Stati membri. Le proposte di riforma infatti su questo punto sono tutte concordi: il potere degli Stati non deve essere messo in discussione. Ma questo comporta che anche la speranza che la legittimazione venga garantita dal voto del Parlamento europeo – o, come qualcuno propone, dall’elezione diretta del Presidente o dalla scelta di uno schieramento politico alle elezioni che indichi il proprio candidato alla guida della Commissione – sia illusoria. Del resto i trattati in vigore prevedono già che la Commissione riceva il voto di fiducia dal Parlamento europeo, anche se solo dopo che il Presidente è stato designato dal Consiglio, ma ciò non ha assolutamente avvicinato la Commissione ad un vero governo. Vale qui lo stesso ragionamento che si applica al Parlamento europeo: non è la mancanza formale di poteri che lo rende così debole, ma quella sostanziale, dovuta al fatto che il potere è ancora nelle mani degli Stati e che quindi esso, come istituzione, resta di fatto subordinato al livello nazionale. E’ del tutto ragionevole pensare quindi che un cambiamento formale nel metodo di investitura della Commissione, per quanto ispirato, a parole, ai principi democratici, se non è accompagnato da quello sostanziale del trasferimento del potere non può scalfire i rapporti di subordinazione esistenti, né può bastare ad avviare tale capovolgimento; al massimo può rendere ancora più stridente la contraddizione democratica, specie se si accrescono le competenze di un organo che, non avendo potere politico, non può confrontarsi con i cittadini e misurarne il consenso, ed è di conseguenza destinato a rimanere un organo burocratico.

Tutto ciò dimostra che l’ipotesi che la Commissione possa evolvere fino a diventare un vero governo dell’Unione senza che ci sia stata una precisa scelta politica in tal senso (che non può non accompagnarsi alla decisione di fondare uno Stato federale europeo) è infondata e che la riforma delle istituzioni esistenti non può essere il cavallo di Troia per far passare la Federazione europea. In generale è inderogabile il principio che la decisione di trasferire dagli Stati all’Europa il potere di decidere in ultima istanza non solo nella sfera delle proprie specifiche competenze, ma, necessariamente, anche in quella della propria esistenza come comunità politica (vale a dire la sovranità) può nascere solo da un atto volontario e cosciente, quali che siano le circostanze che spingono a compiere un passo così decisivo. E senza tale decisione resta in vigore il quadro di potere esistente, l’unico che abbia i requisiti della statualità e in cui si manifesta la volontà – per quanto umiliata nelle condizioni attuali – dei cittadini.

Ora, è evidente che una tale decisione, se deve essere presa consapevolmente, non è pensabile che sia condivisa dagli Stati che sono dichiaratamente contrari – sia a livello di governi, che di classe politica, che di opinione pubblica – allo sbocco sopranazionale del processo europeo. L’iniziativa per fondare lo Stato federale europeo può partire solo da un nucleo ristretto di Stati e in un primo tempo la decisione di farne parte coinvolgerà solo un numero limitato degli attuali e futuri membri dell’Unione. Per concludere, questo comporta che le istituzioni esistenti dell’Unione non solo non sono destinate ad evolvere in modo automatico in senso federale, ma, al contrario, costituiranno un freno al processo che porterà alla nascita della federazione, proprio perché questa potrà essere solo il frutto di una rottura di quel quadro di cui esse sono espressione. Infatti non solo i membri degli Stati contrari all’avanzamento del processo politico europeo che si trovano all’interno delle istituzioni si batteranno perché la loro natura confederale non venga mutata, ma lo spirito di autoconservazione insito in ogni istituzione spingerà l’Unione nel suo complesso a cercare di evitare una spaccatura che la distruggerebbe.

Il tentativo di arrivare alla Federazione europea attraverso una riforma della Commissione che inneschi un meccanismo tale da portarla a diventare un vero governo europeo è quindi, nonostante le buone intenzioni, un tentativo che non incanala l’Europa sulla via dell’unità politica. Non riconoscere questa verità, significa ignorare le contraddizioni insuperabili di fronte alle quali si trovano oggi le istituzioni europee in generale e la Commissione europea in particolare. La Commissione non può infatti diventare un governo senza che la decisione venga sancita da una presa d’atto, da parte degli Stati, che è arrivato il momento di trasferire la sovranità all’Europa, ma una simile presa d’atto non può essere condivisa da tutti gli Stati che sono rappresentati all’interno della Commissione. In definitiva, pensare di mantenere la Commissione a Quindici dandole al tempo stesso poteri e caratteristiche federali significa perseguire due obiettivi inconciliabili. Sarebbe importante che chi si batte per la Federazione europea lo riconoscesse.

 

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