Da alcuni mesi a questa parte, diverse voci all’interno del MFE si sono levate per esprimere una valutazione sostanzialmente negativa nei confronti della scelta fatta dai federalisti, sotto la guida di Altiero Spinelli prima e di Mario Albertini poi, di opporsi alla istituzione, da parte dei governi, del Mercato Comune, nel 1957, e di avere scelto conseguentemente per alcuni anni la strada della radicale “opposizione di comunità”, cioè della contestazione del quadro nazionale e di quello comunitario, per rivendicare la Federazione europea come un diritto del Popolo europeo.
Qualcuno sostiene anche che, sì, fu giusta la scelta del MFE di condurre delle campagne popolari di “rivendicazione costituente” – tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta –, quali furono il Congresso del Popolo europeo e il Censimento volontario del Popolo federale europeo, perché in quelle azioni si formò quel Movimento Federalista realmente autonomo (nell’analisi, nella proposta e nell’azione) che nel successivo quarto di secolo fu in grado di svolgere le battaglie per l’elezione europea e per la moneta unica. Ma fu, invece, un errore – secondo i sostenitori di questa tesi – la critica e l’opposizione al Mercato Comune.
Per meglio comprendere – e apprezzare – la posizione assunta dai federalisti più di quarantacinque anni fa, conviene volgere lo sguardo direttamente ai fatti e alle riflessioni di allora. La caduta della Comunità Europea di Difesa, nel 1954, trascinò con sé – assieme alla Comunità Politica, a cui stava lavorando l’Assemblea ad hoc – la speranza di nascita, in tempi brevi, di uno Stato federale europeo. Non potendo abbandonare del tutto l’impresa europea – specie dopo il successo politico ed economico della prima Comunità, la CECA – i governi nazionali si decisero per la via “facile” dell’integrazione economica senza che venisse più messa in discussione la sovranità degli Stati. I Trattati di Roma consentirono il progressivo abbattimento delle barriere doganali tra gli Stati firmatari (fatto che comportò grandi vantaggi economici per tutti) ma venne altresì stabilito che tutto il potere politico sarebbe rimasto saldamente nelle mani dei governi nazionali, tramite l’istituzione dell’organo principale della Comunità, il Consiglio dei Ministri, titolare di tutte le decisioni fondamentali. Sono, a questo proposito, penetranti alcune osservazioni fatte da Herbert Luthy, nel 1960, che vale la pena riportare almeno parzialmente: “L’integrazione economica era la via della minor resistenza, che consentiva di evitare accuratamente il tabù della sovranità nazionale. ...Non v’è bisogno di nessun giuramento della pallacorda...perché un giorno i consumatori europei possano scegliere, liberamente e senza pagare tasse punitive ...tra formaggio olandese, Camembert e Gorgonzola.
...Che l’integrazione economica debba condurre necessariamente anche a quella politica è una palese assurdità: gli Stati non crescono assieme impercettibilmente, a differenza degli spazi economici...
già nel Trattato di Roma si leggono tante riserve di sovranità ... da lasciare, in ogni caso, l’ultima parola alla politica nazionale. ... La Comunità europea per l’energia atomica non ha affatto impedito alla Francia di costruire e di far esplodere la sua bomba nazionale. (“Quando Giove si decise a voler bene ad Europa”, Nord e Sud, VII, 1960, n. 1112).
Cosa avrebbero dovuto dire i federalisti di tutto questo? Forse tacere davanti a un simile mascheramento delle rinnovate sovranità nazionali, in clima di “miracolo economico”, oltretutto realizzato sulla tomba della CED e del primo tentativo di unificazione? Magari prendere per buone le teorie, allora abbondantemente diffuse, sullo sviluppo progressivo e naturale dell’integrazione economica verso l’unità politica? Certamente no. Spettava invece proprio ai federalisti denunciare questi inganni, e ricordare che la federazione europea sarebbe potuta nascere solo grazie a una chiara e autonoma volontà politica. Nessuno nega il maggiore benessere e la più intensa integrazione tra i cittadini europei che il Mercato Comune generò, ma non era compito dei federalisti occuparsi di questo aspetto, né la loro critica ai governi nazionali toccava questi temi.
Le azioni pubbliche di quegli anni ebbero come base ideologica e come presupposto politico l’opposizione – con quelle motivazioni – al Mercato Comune. Non ci sarebbero state quelle azioni senza quella linea politica. E fu la somma di quelle posizioni politiche e delle conseguenti campagne popolari che forgiò un buon numero di militanti “autonomisti” e dotò il MFE di quella credibilità che, negli anni successivi, gli consentì di confrontarsi direttamente, e in modo vincente, con la classe politica europea sulle questioni del voto europeo e della moneta.
Analogamente, in questi anni, forti del nostro patrimonio storico, spetta ancora a noi il compito di additare chiaramente il vero obiettivo da raggiungere – lo Stato federale europeo – e di indicare il quadro in cui la battaglia per questo obiettivo può essere realisticamente e seriamente combattuta; un quadro che – oggi più di ieri – non può essere quello comunitario, sancito dai Trattati di Roma, e in cui la stessa Convenzione asfitticamente si contorce, bensì quello di un nucleo molto più ristretto di paesi.
Perciò, davanti ai tentativi di governanti nazionali e di membri della Convenzione di spacciare per “Costituzione europea” un documento che non implica alcuna sostanziale cessione di sovranità dagli Stati all’Europa e che, pertanto, non presuppone uno Stato europeo (una Costituzione senza Stato! una vera innovazione della Storia!) non possono non tornare alla mente le dure parole – purtroppo di grande attualità – con le quali Altiero Spinelli, nel 1957, giudicava i limiti del Mercato Comune: “...Volere l’Europa significa però volere un governo europeo il quale amministri gli affari del popolo europeo; significa perciò colpire molte cose e molti interessi, ma soprattutto la posizione ed i privilegi dei detentori del potere nazionale: i ministri con le loro burocrazie, i parlamenti, i partiti nazionali. Tutti costoro si difendono con abilità e con tenacia. Il loro inconfessato e talvolta inconsapevole, ma fermo proposito, è di allontanare da sé l’amaro calice della perdita di una parte sostanziale dei loro poteri; e fare l’unità europea significa proprio questo. Quando si trovano insieme a dover discutere problemi europei, il loro scopo consiste perciò sempre nella ricerca di quel che bisogna fare e dire per non fare l’Europa. E quando ci sono riusciti, si affrettano a coprire il loro misfatto con un bel velo europeista. Nel caso del Mercato comune abbiamo assistito ancora una volta a questa beffa”.