Nell’ambito dell’Unione Monetaria la stretta programmazione, concordata a livello comunitario a seguito del Patto di Stabilità e Crescita, dell’evoluzione della finanza pubblica ha rappresentato, negli ultimi anni, uno strumento di controllo e di coordinamento da parte delle istituzioni europee sulle diverse politiche fiscali nazionali.

Il Patto di Stabilità e Crescita rafforza la sorveglianza nelle posizioni di bilancio (difendendo così anche la credibilità dell’euro). Inoltre, esso organizza la concertazione europea delle politiche economiche prescrivendo che ogni paese concordi con la Commissione e col Consiglio un “Programma di stabilità” pluriennale da aggiornarsi ogni anno. I Programmi di stabilità prevedono che si raggiunga rapidamente il pareggio di bilancio e specificano gli scenari quantitativi e i provvedimenti con cui i governi perseguono tale fine. I provvedimenti devono essere coerenti con le linee guida dettate annualmente dall’Ue e, oltre ad assicurare l’equilibrio di finanza pubblica, devono mirare a migliorare il funzionamento dei mercati e quindi contribuire alla crescita. L’andamento dei conti pubblici nell’area dell’euro tende a violare gli impegni conseguenti alla applicazione del Patto di Stabilità, soprattutto in quest’ultima fase in cui la flessione dell’attività produttiva si riflette in un calo delle entrate tributarie rispetto alle previsioni. Infatti, il rallentamento dell’economia determina una riduzione delle entrate pubbliche in quanto fortemente dipendenti dal livello del reddito, mentre le spese correnti tendono, per la loro rigidità, a rimanere inalterate.

In Portogallo, il governo, ha annunciato che il disavanzo ha toccato nel 2001 il 4,1 per cento del Pil. Immediatamente, la Commissione avviava la procedura di deficit eccessivo “per garantire il funzionamento rigoroso ed efficace del Patto di Stabilità”.

Francia e Germania sono anch’esse in difficoltà, tanto da avere rinegoziato il percorso attraverso il quale raggiungere l’obiettivo, vincolante per tutti, di un bilancio in pareggio nel 2003/04.

Anche l’Italia manifesta delle difficoltà di mantenimento della finanza pubblica nei binari fissati dal Patto. Stando all’ultimo Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria), l’Italia si è impegnata a raggiungere un deficit di bilancio dello 0,8% l’anno prossimo e dello 0,3% nel 2004.

Questi impegni sono già oggetto di dura contestazione da parte del commissario europeo agli Affari economici e monetari Pedro Solbes, deciso ad interpretare in senso restrittivo la formula del “close to balance” che autorizza il governo ad avvicinarsi nel 2003 al pareggio di bilancio, invece di centrarlo come si era impegnato a fare coi programmi di stabilità 2000-2003.

Inoltre, esistono già casi di aggiramento del Patto: in Germania gli investimenti pubblici nei nuovi Laender dell’Est sono stati collocati nella società Kfv, interamente posseduta dallo Stato, ma le cui passività non contano nella definizione del debito pubblico. In Italia è nata Infrastrutture S.p.A.

Le notizie sull’andamento delle entrate fiscali nei maggiori paesi dell’Unione hanno riacceso le polemiche sull’andamento dei conti pubblici e sulla necessità di una revisione del Patto di Stabilità e Crescita. Già nel Vertice di Siviglia è stato modificato l’impegno da parte dei governi nazionali di raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2004 sostituendolo con la previsione di conti “close to balance”, cioè vicino al pareggio, un’espressione ambigua, che offre un margine di flessibilità.

Le modifiche al Patto richieste con maggiore insistenza da parte di politici ed economisti europei sono essenzialmente le seguenti:

1. tenere stabilmente conto, nel calcolo dei deficit di bilancio pubblico ammissibile, della componente ciclica dell’andamento economico (per esempio i sussidi di disoccupazione che attenuano le conseguenze sulle famiglie delle recessioni), onde evitare che in una fase di rallentamento economico le minore entrate fiscali che conseguono al rallentamento impongano ulteriori misure di restrizione destinate ad aggravare l’andamento negativo del ciclo;

2. tener conto non solo del deficit corrente e prospettico ma anche del debito accumulato da un Paese, rendendo meno severa la disciplina del deficit per chi ha un minor debito; 3 calcolare i deficit al netto degli investimenti pubblici, che, stimolando la crescita dal lato dell’offerta, facilitano l’equilibrio di finanza pubblica negli anni a venire.

Queste modifiche sono in realtà già superate dalle necessità impellenti dell’economia europea. Esse sono figlie del Trattato di Maastricht che lascia agli Stati nazionali la sovranità fiscale, mentre a livello sovranazionale il previsto coordinamento delle politiche economiche è inefficace, non essendo supportato da adeguati poteri.

L’Unione Monetaria Europea, analizzata sul piano strettamente economico, dovrebbe avere radici nella teoria dell’Area Valutaria Ottimale elaborata dal premio Nobel Robert Mundell, secondo cui le condizioni per la realizzazione dell’unione sono: una valuta comune (cambi fissi e irreversibili all’interno dell’area); politica monetaria comune; flessibilità e mobilità del fattore capitale; flessibilità del fattore lavoro (intesa sia come flessibilità del salario, sia come mobilità dei lavoratori); politica fiscale federale (capace di attutire e di compensare gli effetti asimmetrici di scosse di portata significativa provenienti dall’esterno dell’area, sulle quali gli strumenti monetari comuni controllati dalla BCE non esercitano influenze efficaci).

Dall’esame delle vicende politiche ed economiche dei paesi membri, in cui persistono problemi di insufficiente convergenza verso valori di crescita comuni e di scarsa flessibilità dei mercati, i progressi verso l’area monetaria ottimale sono modesti.

La domanda che i federalisti si devono porre è se, al di là delle modifiche al Patto di Stabilità, vi sia nel funzionamento dell’UEM qualche elemento economico che spinga nella direzione di promuovere dal di dentro e in modo automatico quelle condizioni di conformità strutturale attualmente assenti.

La risposta è no. L’UEM è basata su un Trattato stipulato da governi nazionali che mantenendo la sovranità fiscale sono incapaci di garantire la crescita omogenea del reddito e dell’occupazione.

Solo con il trasferimento della sovranità ad un nuovo Stato federale europeo sarà possibile una politica economica che promuova lo sviluppo omogeneo e un bilancio federale capace di attenuare gli shock asimmetrici sui diversi paesi membri.

Inoltre, per completare la riforma dell’economia europea occorrerebbe ridefinire il mandato alla BCE rifacendosi alla formulazione dello Humphrey-Hawkins Act, che affida alla FED il compito di “mantenere la crescita di lungo periodo degli aggregati monetari e creditizi in linea con il potenziale di crescita di lungo periodo della produzione, in modo da promuovere efficacemente gli obiettivi della massima occupazione, della stabilità dei prezzi e del mantenimento di livelli moderati dei tassi di interesse di lungo termine”.

 

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