Dopo le elezioni del 13 aprile, la maggior parte dei commentatori in Italia ha salutato con sollievo il fatto che il paese abbia raggiunto una situazione in cui si prospetta un lungo periodo di stabilità politica. Tutta la campagna elettorale e il dibattito che l’ha animata sono stati infatti incentrati sulla necessità di rafforzare con adeguate riforme istituzionali ed elettorali la governabilità del paese, identificata come la questione che penalizza l’Italia rispetto alle altre democrazie europee. La ricerca di un consenso bipartisan sugli interventi da fare in questo campo continua ancora adesso ad essere al centro dei rapporti tra maggioranza ed opposizione, benché sia evidente che in questo momento non mancano certo i consensi e i numeri al governo in carica. Ma, come spesso succede anche in politica, in situazioni di difficoltà si cerca a volte di identificare a tutti i costi una causa e quando si crede di averla trovata la si usa come pretesto per non approfondire ulteriormente l’analisi di quanto sta realmente accadendo. E’ vero che questa tendenza in atto in Italia lo è anche in moltissimi paesi occidentali, in cui la crisi della politica è un fenomeno generalizzato che sta portando a processi di rafforzamento dell’esecutivo a scapito degli altri poteri dello Stato. Basta leggere a questo proposito la denuncia di Al Gore nel suo ultimo libro (tradotto in Italia con il titolo L’assalto alla ragione) sulla degenerazione del sistema istituzionale e politico americano per capire che se il problema colpisce così duramente la più grande democrazia nel mondo, le cause devono essere strutturali e profonde e non possono certo risparmiare un paese debole e fragile come il nostro.

Tuttavia ciò non diminuisce la preoccupazione nei confronti di una tendenza che non risolve i problemi e che può avere implicazioni molto pericolose.

Nel caso specifico dell’Italia, non si vuole entrare qui nella questione di se e quali riforme aiuterebbero il nostro paese a funzionare un po’ meglio. Ciò che preme sottolineare è l’insufficienza e la superficialità (spesso strumentale) dell’analisi che viene fatta dei problemi del paese e la sottovalutazione dei rischi che esso corre nella misura in cui non è in grado di capire le vere radici delle sue carenze. Questi rischi, nella situazione attuale di insicurezza generalizzata in cui si trovano i cittadini che sentono il loro futuro minacciato da sfide che non vengono adeguatamente affrontate dalla politica, sono così numerosi ed evidenti che basta solo ricordarli brevemente. Innanzitutto il fenomeno già in atto della ricerca di capri espiatori, e quindi la possibilità della degenerazione della società in senso razzista e intollerante; il desiderio di identificare un capo carismatico su cui riversare le speranze di riscatto, e dunque il pericolo di una deriva antidemocratica; l’insofferenza delle aree più ricche del paese nei confronti delle regioni più arretrate e il rischio concreto di una disgregazione dello Stato. Il fatto che questa involuzione sia in atto anche in altri paesi (l’ampio consenso a forze di dubbia affidabilità democratica, quando non apertamente razziste, in molti Stati europei, le spinte centrifughe così diffuse, ecc.) non diminuisce la gravità del pericolo, ma anzi dovrebbe spingere a riflettere più seriamente sulle sue cause, che “forse” non si esauriscono nella forza o nella debolezza del governo, ma sono ben più profonde.

Lo stesso Tremonti, ministro in carica dell’attuale governo, ce le ricorda nel suo libro recentemente pubblicato, La Paura e la speranza. “L’Europa” egli scrive “è stata ed è ancora il principale e più tipico punto di incrocio tra due forze tra loro opposte: la forza ‘crescente’ del mercato globale; la forza ‘decrescente’ dello Stato nazionale. E’ un fenomeno, quello della crisi dello Statonazione, evidente da un po’ di anni.... La vecchia politica nazionale è stata infatti erosa dalla globalizzazione e, al contempo, devoluta verso l’alto in nuovi contenitori europei...che, non avendo un’identità politica propria, non hanno neppure una forza propria... L’Europa che c’è ora non è né carne né pesce) (p.5253)”.

Chi può negare la correttezza di una simile analisi? Ma allora la risposta alla crisi crescente degli Stati europei, e dell’Italia in particolare, è chiaro che dovrebbe avere, come priorità assoluta, la creazione di un nuovo potere statuale europeo capace di riacquisire quelle “quote crescenti del potere politico perso a livello nazionale” , sempre per citare Tremonti, e di ridare alla politica gli strumenti e il potere da cui dipende la soluzione della crisi europea, che è soprattutto una crisi sociale e morale (p.6162). Tremonti è il primo a non portare a logica conclusione le sue affermazioni e a proporre soluzioni pasticciate (vedi a questo proposito il commento sul suo libro pubblicato a pag. 7). Ma il suo errore accomuna tutta la classe politica italiana. Nessuno accenna, o anche solo pensa, alla necessità di un accordo bipartsan, non su questioni secondarie di potere interno, ma sul punto cruciale da cui dipende davvero il futuro del nostro paese: quello di identificare le iniziative di cui l’Italia dovrebbe assumersi la responsabilità in Europa per avviare la creazione di uno Stato federale dotato di poteri sovrani nei settori cruciali in cui il livello nazionale è ormai impotente. Purtroppo, perseverare, ed insistere, nella chiusura miope e provinciale del dibattito politico attorno alle questioni nazionali porterà l’Italia alla deriva. In questa Europa “né carne né pesce” il nostro paese è perdente per definizione: le sue debolezze strutturali vanificano anche solo i tentativi di tamponare la crisi crescente. Nel momento in cui il giornale sta andando in tipografia il “No” al referendum irlandese sul Trattato di Lisbona potrebbe dare l’opportunità, ad una classe politica capace ed adeguata alle sfide del proprio tempo, di trasformare questa impasse dell’Unione in una “nuova chance per l’Europa” come titolava il 15 giugno Le Monde. Ma c’è qualcuno capace di raccogliere la sfida?

 

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