Nel momento in cui stiamo preparando il giornale, il futuro status del Kosovo non è ancora definitivo. Tuttavia, sembra ormai certo che la provincia serba del Kosovo, da otto anni amministrata dalle Nazioni Unite, diventerà l’ennesimo Stato “indipendente e sovrano” in Europa.

Il 10 dicembre 2007 si sono concluse infruttuosamente le trattative condotte tra i rappresentanti del governo serbo, dei kosovari, degli USA, della Federazione Russa e l’ambasciatore tedesco in Gran Bretagna Ischinger, in veste di rappresentante dell’Unione Europea per i negoziati. Russi e Serbi premono perché il Kosovo resti una provincia, autonoma, della Serbia, mentre gli Usa appoggiano le istanze indipendentiste dei partiti kosovari, il Partito Democratico (guidato dall’ex leader dell’Uck, Thaci) e la Lega Democratica. Il premier della Repubblica d’Albania, Berisha, da parte sua ha fatto sapere che il suo paese non è propenso a una futura unificazione della provincia con l’Albania.

I rappresentanti della popolazione albanese del Kosovo (il 95% degli abitanti della regione) senza indugio hanno annunciato la futura “dichiarazione di indipendenza” della regione, basandosi sulle prospettive lasciate aperte dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza ONU e sul quanto mai controverso “principio di autodeterminazione dei popoli” (non è chiaro il soggetto che debba esercitare questo diritto: i kosovari? I cittadini di tutta la Serbia, compresi i kosovari? Le singole comunità locali? La nazione albanese nella sua totalità?). Ma se a breve nascerà una Stato kosovaro, non sarà certo per motivi giuridici, quanto per questioni di carattere più prettamente politico e strategico, che con l’autodeterminazione nulla hanno a che fare: la nuova definizione degli equilibri di potere tra i due principali attori, gli Stati Uniti e la Russia, i quali vogliono dimostrare al mondo il loro ruolo di grandi potenze, soprattutto nei confronti delle potenze emergenti extraeuropee.

La regione del Kosovo, contesa per secoli dai paesi confinanti, è attraversata dalle vie di comunicazione che collegano l’Adriatico, il mar Egeo e l’entroterra balcanico. Qui passano i traffici di merci illegali e pericolose dirette verso l’Europa e qui passeranno i futuri gasdotti provenienti o dalla Russia o dall’Asia centrale, via Turchia. Ma non solo: la provincia è di rilevanza strategica per la Serbia, tradizionale alleato della Russia, da sempre interessata ad avere un ruolo preponderante nei Balcani. Le conseguenze di una dichiarazione unilaterale di indipendenza sarebbero drammatiche non solo per il possibile rinascere di scontri, anche armati, tra le etnie albanese e serba nella zona della Metohija, ma anche per il possibile (e pericoloso) precedente. In Europa esistono altre zone formalmente parti di uno Stato ma de facto sotto il controllo di un altro: le regioni moldave della Transnistria, quelle georgiane della Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, “occupate” dalle truppe di peacekeeping russe. Mosca sarebbe pronta riconoscere unilateralmente “l’indipendenza” di queste aree nel caso il Kosovo facesse lo stesso.

Lo stesso precedente verrebbe sfruttato a fini propagandistici (e non solo) dai numerosi gruppi indipendentisti nei vari paesi dell’Europa occidentale, tra cui i baschi dell’Eta, i fiamminghi del Vlaams Belang, lo Scottish National Party, e le numerose realtà secessioniste italiane.

E’ il trionfo del nazionalismo e dei micronazionalismi, dell’identità tra Stato ed etnia. E il nazionalismo e l’intolleranza risultano tanto più evidenti quanto più piccole sono le “nazioni” che aspirano o ottengono “l’indipendenza”: data la difficoltà del riconoscimento della loro specificità, identificano come un pericolo le comunità al proprio interno che non si riconoscono appartenenti alla “nazione”.

In questo scenario di disgregazione, l’Europa sta a guardare. O meglio, l’Europa strutturalmente non può fare altro che guardare, poiché non esiste alcun potere politico europeo che non sia quello degli Stati, che si pongono di fronte alla questione in base ai loro propri interessi nazionali nel breve periodo (investimenti nell’area balcanica, forniture energetiche, trasporti).

I Capi dei governi europei si sono trovati divisi al Consiglio dell’Unione europea sulle possibili proposte per risolvere la questione: chi propone una futura adesione della Serbia all’UE (e alla NATO!) in cambio del nulla osta alla secessione, chi (come il governo olandese) rifiuta il dialogo finché la Serbia non riconoscerà il Tribunale Internazionale dell’Aja, chi come Cipro teme che la secessione kosovara giustifichi la futura secessione della parte nord dell’isola, abitata da Turchi.

C’è però chi guarda con favore all’indipendenza del Kosovo, come un passo in avanti nel cammino di questo paese verso l’ingresso nell’Unione europea, ostacolato dal fardello della Serbia, paese autoritario, arretrato e succube di Mosca. Certamente in un futuro non remoto, il neonato Stato potrebbe avere le caratteristiche formali per l’adesione all’Unione europea, che esercita una notevole forza di attrazione in virtù delle prospettive di sviluppo economico. Non possiamo dubitare della buona fede di chi in Serbia e Kosovo aspira veramente a far parte di una realtà politica, economica e sociale di carattere continentale. E’ doveroso però ribadire che non è questa la strada da percorrere.

Da parte nostra, come federalisti e come cittadini europei, sentiamo il dovere morale e politico di ricordare ai nostri governi che solo una rapida unificazione politica dell’Europa, con la creazione di uno Stato federale europeo (anche magari ristretto ai soli paesi che vorranno prendere l’iniziativa di fondarlo), potrà evitare la tragedia della frammentazione e fornire un modello di convivenza pacifica tra i popoli non più basato sul concetto di nazione. E che solo un’Europa finalmente capace di “parlare con una sola voce”, ossia uno Stato europeo, può avere la forza e il peso politico per risolvere autonomamente queste situazioni di crisi ai propri confini, per stabilizzare la regione sottraendola al gioco delle altre potenze, e per offrire ai cittadini dei Balcani la possibilità di aderire ad un grande progetto politico capace di unire i popoli senza soffocare la loro identità.

 

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