Dopo l’attentato terroristico dell’11 marzo a Madrid, il Consiglio europeo ha adottato l’ennesima retorica dichiarazione che, se non riguardasse fatti così tragici, sarebbe addirittura ridicola. Basta leggere il passaggio sulla clausola di solidarietà per rendersene conto. Quali concrete conseguenze possono infatti avere affermazioni del tipo “gli Stati membri e aderenti agiscono in spirito di solidarietà se uno di essi è vittima di un attacco terroristico”, oppure “gli Stati membri mobilitano tutti gli strumenti a loro disposizione, incluse le risorse militari, per prevenire le minacce terroristiche sul territorio di uno di loro’’ quando i singoli Stati sono totalmente impotenti e non esistono istituzioni federali europee capaci di elaborare e promuovere adeguate politiche di sicurezza sia sul piano interno che internazionale? A tutt’oggi persino gli accordi di Schengen, quelli per Europol e per Eurojust testimoniano in realtà non i successi, ma i vuoti propositi di governi e Stati che non vogliono andare al di là di una debole cooperazione fra sistemi di polizia e giustizia nazionali, che rimangono distinti e quindi sospettosi gli uni degli altri se non addirittura in conflitto. E’ evidente perciò che la nomina da parte del Consiglio europeo dell’olandese Gijes de Vries, Monsieur terrorisme, come alcune agenzie stampa lo hanno tristemente ribattezzato, che dovrà lavorare come coordinatore delle attività per la lotta al terrorismo, non potrà aggiungere nulla di nuovo allo scenario europeo: questa nuova figura non avrà certo il potere di convincere o costringere le polizie nazionali dei venticinque paesi membri a collaborare, né è pensabile, per quanto riguarda la prevenzione del terrorismo sul piano internazionale, che senza una politica estera e di difesa unica i venticinque servizi segreti degli Stati dell’Unione possano condividere pienamente le rispettive informazioni riservate.
I Capi di Stato e di governo – ma a dire il vero la classe politica europea nel suo insieme – non si stanno preoccupando di sciogliere questi nodi. Essi sembrano ormai rassegnati al fatto che gli Stati europei possano diventare il terreno ideale per mettere in atto tentativi di destabilizzazione e di disgregazione delle istituzioni nazionali, a turno preda di rigurgiti di un terrorismo interno legato a rivendicazioni nazionaliste e di un terrorismo internazionale alimentato dalla crescente anarchia a livello mondiale e dalla aggressiva politica americana. Questa palpabile rassegnazione è uno dei sintomi più preoccupanti della deriva europea e dell’affievolirsi della volontà di fare davvero l’Europa.
E’ un fatto che oggi, a differenza anche del recente passato, gli effetti destabilizzanti degli atti terroristici non possono più essere attenuati dalla presenza di un quadro europeo in continuo progresso sul terreno dello sviluppo, della legittimità democratica e dell’influenza europea in campo internazionale. Dopo Maastricht l’Unione europea allargata è entrata, di fatto, in una fase involutiva sia sul terreno istituzionale che su quello economico e monetario. Una fase nella quale pretendere di affrontare e risolvere i gravi problemi che affliggono gli Stati europei e il mondo con gli strumenti forniti dalle istituzioni comunitarie è diventato altrettanto anacronistico e velleitario che volerli affrontare e risolvere in un quadro nazionale.
Gli europei del ventunesimo secolo, al pari degli italiani del Cinquecento, stanno purtroppo ignorando l’ammonimento di Machiavelli, secondo il quale la fortuna è arbitra solo della metà delle nostre azioni, ma lascia governare l’altra metà a noi. La fortuna, come insegna Machiavelli, assomiglia ai fiumi in piena che, “quando s’adirano, allagano e ruinano e ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro”, senza potervisi opporre. Proprio per questo gli uomini devono costruire dei buoni argini per contenerla “quando sono tempi quieti” (Il Principe, cap. xxv).
La debole Unione europea a Venticinque (e presto a Ventisette-Ventotto), con o senza la “costituzione europea” partorita dalla Convenzione, non è e non sarà in grado di arginare “i fiumi rovinosi” che l’attuale disordine mondiale ingrossa e fa adirare, lasciando gli europei in balia degli eventi. Quel che è accaduto a Madrid è un’ulteriore, triste anticipazione di questo stato di cose, che ha la sua radice ultima nell’incapacità dimostrata finora dagli europei di creare un solido Stato federale continentale nei “tempi quieti”. Continuare a percorrere la strada delle cooperazioni più o meno strutturate e rafforzate in campi diversi, tra gruppi di paesi diversi, dentro i Trattati esistenti o in procinto di essere ratificati, non può portare da nessuna parte. Lo dimostra l’esperienza storica fatta da quei popoli che in passato, nei momenti cruciali, si sono accontentati di stabilire fra loro Leghe, Commonwealth o aleatorie unioni in diversi campi invece di far nascere, fondendosi, un nuovo popolo in un nuovo Stato.
Accontentarsi di promuovere un po’ più di cooperazione in materia di sicurezza, o di giustizia o di antiterrorismo nell’Europa a Venticinque rappresenta purtroppo o l’alibi per non fare la federazione europea o la rinuncia a battersi per farla.
Ma non tutto è perduto. Il tempo per costruire il popolo e l’Europa federali non è ancora finito. Resta ancora una via da percorrere. Basta che almeno un gruppo di paesi, a partire dai fondatori, manifesti la volontà di contrastare questa deriva, annunciando di voler creare un primo nucleo federale, ovviamente aperto a chi vorrà aderirvi in seguito, per ridare una prospettiva di salvezza all’intera Europa. Questo è l’unico modo per dare vita a un soggetto politico di dimensioni continentali adeguato alle nuove sfide internazionali e capace di garantire ai propri cittadini la sicurezza e lo sviluppo economico.