La Russia è un paese vasto e disomogeneo, con forti spinte centrifughe e a rischio di disgregazione. Da quando è salito al potere, Putin ha capito che l’unico modo per conservarne l’unità è quello di riacquisire il ruolo di grande potenza: obiettivo non facile da raggiungere che, allo stato dei fatti, può basarsi solo sullo sfruttamento dell’unico punto di forza del paese, le immense risorse energetiche e in particolare il gas naturale. Su questa base il leader del Cremino, dopo aver ristabilito il controllo statale sull’intero settore, ha costruito, in questi ultimi anni una politica di “imperialismo energetico” basato sulle risorse interne e su quelle dei paesi dei quali la Russia detiene importanti quote di export, come le ex repubbliche sovietiche in Asia centrale.
Le riserve di gas naturale della Russia ammontano a ben il 27,8% di quelle mondiali accertate e potenzialmente potrebbero essere esportate in tutto il mondo, compresi l’Estremo oriente e gli Stati Uniti d’America, dove Putin punta ad acquisire il 10% dell’intero mercato degli approvvigionamenti energetici. Nella sfida per il mercato mondiale dell’energia, la Russia parte infatti avvantaggiata, disponendo di vari giacimenti localizzati in diverse aree del paese, in posizioni tali da permettere l’esportazione verso tutti i mercati mondiali, anche se questi giacimenti, per essere sfruttati pienamente, necessitano dei capitali e della partnership tecnologica occidentale.
La più vecchia e collaudata fonte di approvvigionamento energetico è quella del bacino del Volga e degli Urali: si tratta dei giacimenti già sfruttati nella Russia europea, con impianti estrattivi e di stoccaggio già in funzione, che ricevono anche il gas proveniente dal Kazakistan e dal Mar Caspio grazie all’ammodernamento delle reti ex-sovietiche. Vi è poi il Caucaso, zona di passaggio tra Asia e Mediterraneo di importanza vitale che la Russia tenta di mantenere nella sua sfera di influenza (e che gli Stati Uniti tentano di sottrarle). Passando alla Russia asiatica si trova l’immenso bacino siberiano: le zone di Peshora, la penisola di Jamal, la costa del Mar di Kara e l’offshore artico. Per quanto riguarda il metano di quest’area, esiste già da alcuni anni un accordo di associazione con la Norvegia per l’export di gas liquefatto verso gli USA grazie alla tecnologia “Gas to Liquigas” che permette il trasporto via nave. Le trattative per la vendita erano già in corso con la Yukos prima che il governo russo arrestasse gli oligarchi e acquisisse le parti migliori del gruppo per potenziare Gazprom, la società costruita sulle ceneri del Ministero sovietico del petrolio. Gli idrocarburi di quest’area sono anche quelli che alimenteranno il gasdotto nel Baltico per rifornire il nord Europa.
In Estremo oriente lo sfruttamento più difficile, a causa delle difficoltà logistiche e delle condizioni climatiche proibitive, ma è anche molto promettente perché rifornirebbe i mercati di Cina, Giappone e Sud est asiatico, oggi più che mai bisognosi di energia; per questo il governo russo e i soggetti federati ricercano partnership con grandi corporations, come la Shell, anche se al momento i costi continuano ad essere molto superiori al previsto.
Lo scenario che presenta minori problemi dal punto di vista tecnico, è quello europeo, ma è anche l’unico che ha registrato rallentamenti per quanto riguarda il flusso di gas fornito. Il problema è puramente politico, ed è legato ai rapporti della Russia con i paesi dell’Europa orientale. Questi paesi, dalle tre repubbliche baltiche al Caucaso, hanno avuto sin dai tempi del crollo dell’URSS l’obiettivo di tutelarsi rispetto ad un vicino così incombente e tutti hanno avviato le procedure per entrare nell’orbita dei paesi occidentali (o più propriamente degli USA) chiedendo di poter aderire alla Nato e/o all’UE. L’allargamento di queste due organizzazioni ha così creato un’unica fascia di paesi “ostili” a Mosca dal Baltico al Mar Nero che cercano di svincolarsi dal ricatto degli approvvigionamenti energetici esercitato dai russi progettando flussi di rifornimento provenienti dal Caucaso, col benestare degli Stati Uniti e il finanziamento delle grandi corporations, in particolare ChevronTexaco. Per operazioni di così ampio respiro, però, sono necessari anni e le forniture russe rimangono per il momento indispensabili.
Il primo episodio della “crisi del gas” avvenuto nel 2005 a causa del cambio di regime in Ucraina, quando la “rivoluzione arancione” ha portato al governo il filooccidentale Yushenko, che come primo atto di governo ha concesso la possibilità di passaggio ai gasdotti di qualunque operatore ne facesse richiesta. In risposta a questa “apertura al libero mercato”, il governo russo, per mezzo di Gazprom, ha portato a livello di mercato anche i prezzi del gas metano destinato all’Ucraina: dai pochi dollari del prezzo calmierato (riservato alla Federazione russa e ai paesi della CSI) a ben 230 dollari per mille metri cubi. Un prezzo insostenibile per i consumatori ucraini, che hanno compensato le perdite sottraendo dai tubi il gas destinato all’Europa occidentale e causando così una diminuzione nel flusso dei rifornimenti destinati agli europei. Una situazione simile si è verificata anche all’inizio di quest’anno, quando Gazprom ha “chiuso i rubinetti” degli oleodotti che attraversano la Bielorussia dell’ex fedelissimo di Mosca Alexander Lucashenko, colpevole di sottrazioni indebite di carburante.
Da parte sua la Russia, per evitare il ripetersi di questi episodi e mantenere al tempo stesso il monopolio del gas, ha deciso, dopo essersi assicurata il controllo dei giacimenti in Asia centrale e dopo aver contrastato in tutti i modi la creazione di nuovi tracciati esterni al proprio territorio per il trasporto di idrocarburi, di creare percorsi alternativi per raggiungere i mercati occidentali evitando la cintura dei paesi ostili. E’ per questo motivo che un consorzio multinazionale, gestito dalla Russia e con a capo l’ex cancelliere tedesco Schroeder, sta progettando una supercondotta da 55 miliardi metri cubi all’anno posata sul fondo del Baltico e diretta verso la Germania, con una bretella di collegamento verso l’enclave Russa di Kaliningrad; il tutto mentre Gazprom punta anche al raddoppio dell’attuale condotto sottomarino tra Russia e Turchia (Blue Stream 2) che porterà rifornimenti nell’Europa meridionale e forse in Israele.
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Questo quadro dimostra che il Cremlino, pur con tutte le inevitabili difficoltà, non solo persegue una strategia consapevole e determinata, ma riesce anche a realizzarla con successo. Il tentativo americano di ostacolarla per il momento è sostanzialmente fallito e la situazione che si sta venendo a creare vede il ritorno sulla scena mondiale della Russia, oltre che nello scacchiere asiatico in sintonia con al Cina, anche in quello europeo. Tutti gli Stati europei si trovano infatti in una situazione di dipendenza rispetto alle forniture russe che li rende estrema mente vulnerabili e ricattabili. E’ evidente che una simile fragilità rischia di diventare pericolosissima in una situazione internazionale in cui la tensione tra USA e Russia tende a crescere: in queste condizioni il destino dell’Europa è quello di diventare (o di tornare ad essere) terreno di confronto tra grandi potenze, cioè un’area rispetto alla quale si cerca di mantenere, nel caso americano, o di estendere, nel caso russo, la propria sfera di influenza.
Per gli europei si pone allora un duplice problema: da un lato quello di sviluppare le tecnologie finalizzate ad una maggiore autonomia in campo energetico e di cercare fonti alternative di approvvigionamento (come le partnership che molti paesi nordafricani hanno richiesto a Italia, Francia e Spagna); dall’altro quello di diventare un polo autorevole ed autonomo della politica mondiale. In entrambi i casi la condizione è che l’Europa si unisca politicamente, cioè che alcuni paesi avviino la creazione di un primo nucleo dello Stato federale europeo destinato poi ad allargarsi a macchia d’olio nel resto del continente. Fino a che questo primo passo concreto non verrà fatto, è inutile sperare di ottenere qualcosa con le proteste del presidente europeo di turno (come avviene in questi mesi con Angela Merkel). Queste non possono essere tenute in considerazione da Mosca per il semplice fatto che una “conferenza dei paesi europei che usufruiscono degli idrocarburi” non ha un peso politico e che il confronto potrebbe avvenire solo con un vero governo federale degli Stati Uniti d’Europa.