Il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea, che ha accompagnato il rapporto della Commissione e la decisione del Consiglio a metà ottobre, ha stimolato per un breve periodo anche nel nostro paese una riflessione più seria sui limiti dell’attuale Unione, sulle sue responsabilità e sul suo futuro. Non tanto nella classe politica, prigioniera come sempre della retorica e dei luoghi comuni, ma almeno tra gli osservatori. Vale la pena di richiamare alcune delle analisi che sono state fatte in quei giorni sui giornali per ricordare ai nostri politici, siano essi al governo o all’opposizione, di provare a porsi seriamente, almeno per una volta, il problema del che fare per l’Europa.
Ad esempio, scrive Barbara Spinelli su La Stampa il 18 ottobre: “L’ingresso della Turchia può essere una formidabile occasione storica. Ma la Turchia non può entrare nelle condizioni attuali. E’ un paese di più di 67 milioni di abitanti… e il suo Stato è per antica consuetudine assai geloso della sua sovranità… Bisogna che gli europei decidano veramente di limitare la sovranità dei propri Stati-nazione, se non vogliono che il vigore demografico della Turchia sfasci sul nascere l’Europa-potenza che a parole continua ad essere invocata. Se non vogliono che in Europa entri una seconda Inghilterra, interessata come Londra a dividere l’Unione e non a irrobustirne l’autorevolezza e l’efficacia. Bisogna … che l’ingresso della Turchia diventi un’opportunità … anche per la crescita di un’Unione capace di esistere e divenire soggetto storico anziché oggetto. Per conseguire tale scopo… bisognerà osare rompere il patto di reciproca non aggressione tra sovranità statali intangibili che fonda in ultima analisi l’ibrido costituzionale su cui ci si è messi d’accordo (non è una vera costituzione e non è un vero trattato… è un oggetto spurio… del tutto inadatto ad assorbire senza traumi una semi-potenza come la Turchia). E se alcuni popoli diranno no alla costituzione… bisognerà che un cerchio più ristretto di Stati membri decida forme di integrazione più avanzate senza attendere gli altri, e che questo cerchio dia a sé stesso una costituzione e istituzioni comuni degne di questo nome. A quel punto non sarà un’impresa completamente impervia assorbire la Turchia, e i benefici che ne trarremo peseranno più degli inconvenienti. Ankara potrà entrare nel cerchio ristretto se vorrà mettersi al servizio dell’Europa-potenza. Se non lo vorrà resterà fuori dal cerchio, assieme ai paesi dell’Unione che non hanno seguito la locomotiva delle avanguardie e che hanno delegato porzioni minori di sovranità alle autorità sopranazionali”.
E Sergio Romano sul Corriere della Sera il 19 ottobre: “La questione della Turchia è stata male impostata. Abbiamo interesse ad accoglierla in Europa… Ma avremmo potuto ispirarci al progetto di Jacques Delors e inserirla, con gli altri candidati, in una grande Confederazione… Avremmo associato i turchi a buona parte delle nostre politiche comuni, ma conservato intatto il vecchio nucleo storico europeo… Ma non appena la macchina dell’allargamento … si è messa in moto, queste prospettive sono diventate irrealistiche… .Ma non possiamo dimenticare che un’Europa composta da più di trenta Stati non avrà nulla a che vedere con quella che volevamo costruire. Se non vogliamo che l’ambizione dei fondatori finisca nell’archivio dei sogni incompiuti, occorrerà tornare alle origini e costruirne una più piccola, ma più omogenea. Ne faranno parte, verosimilmente, insieme ai Sei del Trattato di Roma, coloro che hanno maggiori legami storici e più forti affinità: un “primo cerchio” che stringerà con gli altri partner legami importanti, ma non federali”.
Questo confronto sulla necessità di rifondare l’Unione creando diversi livelli di integrazione è quello che sta animando anche la Francia in questo periodo sia a proposito dell’ingresso della Turchia nell’Unione che dell’approvazione o meno della costituzione europea. Un tempo l’Italia si sarebbe posta il problema di essere all’avanguardia di questo dibattito su come far avanzare l’unità dell’Europa, per influenzarlo il più possibile in senso federalista e sovranazionale. Oggi invece dalla classe politica si leva solo un coro di banalità e di retorica vuota, e per contrasto le voci di chi è contrario al progetto europeo acquistano vigore. Sarebbe davvero il caso di riflettere a fondo su questo fatto, e cercare di capire perché il paese che ha la maggiore tradizione federalista oggi non è più in grado di dare un contributo al processo di unificazione europea.