Come è noto la quinta Conferenza della WTO, che si è tenuta verso la metà di settembre a Cancun, ha concluso i suoi lavori anzitempo a causa del fallimento dei negoziati tra i 146 paesi membri. Sul tavolo delle trattative i problemi da affrontare ripresentavano molte delle tematiche che hanno caratterizzato, già a partire dalla seconda guerra mondiale, un lungo processo che si proponeva di tentare di organizzare l’economia mondiale e di cui il vertice di Cancun è solo l’ultimo capitolo.
Con la Conferenza monetaria e finanziaria tenutasi a Bretton Woods nel 1944 veniva infatti delineato il progetto della creazione di un ordine economico internazionale fondato sul libero scambio che si proponeva di evitare i gravi errori compiuti a seguito della grande crisi del 1929. Per cercare di arginare questo periodo di grave depressione i governi nazionali avevano infatti introdotto forti misure protezionistiche che, invece di salvaguardare le economie, provocarono una riduzione dei due terzi del commercio internazionale rispetto agli anni precedenti e un prolungarsi della crisi. Un argine ipotizzabile alla crisi sarebbe dovuto essere la collaborazione tra i diversi paesi colpiti ma le misure adottate aggiunsero al calo della domanda interna anche il crollo della domanda internazionale.
Nel 1946 furono gli USA a proporre la creazione dell’Organizzazione del Commercio Internazionale (OCI) ma le economie dei paesi europei non erano ancora in grado di competere con quella americana e il progetto non fu accettato. Si cercò quindi la via del compromesso con la Carta dell’Avana, ma in questo caso furono gli Stati Uniti a ritenere troppo poco liberistico il progetto.
Nel 1947 si arrivò quindi alla creazione del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) che consisteva in un accordo per realizzare, attraverso negoziati permanenti, la riduzione delle barriere doganali e la progressiva liberalizzazione degli scambi. Fu proprio utilizzando come base il GATT che, con la volontà di allargare l’integrazione economica al maggior numero di paesi e di ottenere un organo stabile, venne costituito nel 1994 la WTO.
Questo organismo avrebbe dovuto rappresentare la sede istituzionale per governare in modo più democratico e giusto la globalizzazione e per risolvere le controversie commerciali fra gli stessi Stati. Ma nel giro di pochi anni le opinioni pubbliche e gli Stati hanno dovuto prendere coscienza dei limiti intrinseci di questa organizzazione, limiti che sono comuni a tutte le istituzioni internazionali in cui il potere di decidere in ultima istanza resta de facto nelle mani degli Stati. Questo spiega perché, dopo quello di Seattle, dobbiamo oggi parlare del fallimento di Cancun (per un inquadramento del problema si veda in proposito L'Europa e il commercio mondiale, in Il Federalista n. 1, 2000).
Con la conferenza di Cancun l’assetto di questa organizzazione internazionale ha subito una ulteriore alterazione rispetto al recente passato: si è rotto quel delicato, e per definizione precario, equilibrio che gli USA hanno cercato di imporre ai paesi in via di sviluppo e, per la prima volta, allo schieramento dei paesi più ricchi (USA in testa) si è contrapposto apertamente un polo di una ventina di Stati guidati dalla Cina insieme all’India, al Brasile e al Sud Africa, che hanno reagito alle condizioni presentate dai paesi che gestiscono l’economia mondiale.
Per capire meglio la situazione, è necessario considerare il contesto nel quale l’economia mondiale si sta sviluppando all’inizio del XXI secolo e quali sono i problemi nella gestione dei rapporti tra aree profondamente differenti per livello di ricchezza e grado di sviluppo.
La globalizzazione è stata presentata come un processo in grado di portare vantaggi tanto ai paesi ricchi quanto a quelli poveri: mercati più ampi, eliminazione di barriere commerciali sia in entrata sia in uscita, divisione internazionale del lavoro e quindi la possibilità di creare le condizioni finanziarie e tecnologiche per avviare lo sviluppo. Ma questa ipotesi si scontra con alcune contraddizioni. Innanzitutto una condizione cruciale perché anche i paesi in via di sviluppo possano godere dei vantaggi del mercato mondiale è una riforma delle loro regole interne volta a migliorare la trasparenza, la concorrenza, la certezza del diritto che sono le condizioni necessarie per attirare investimenti, energie imprenditoriali, capitali finanziari, ecc. Ora, questa riforma è pensabile, e nel complesso realizzabile, nei paesi sviluppati o nei paesi vicini a questa soglia, mentre non lo è, nel breve periodo, nei paesi il cui problema principale restano la sicurezza, la fame e il mantenimento del livello di sussistenza per centinaia di milioni di persone. Inoltre, in campo agricolo, i sussidi interni di Stati Uniti, Europa, Canada, Giappone ed altri sono tali da bloccare in partenza ogni progetto di commercializzazione internazionale dei prodotti dei paesi in via di sviluppo e chiudono di fatto il mercato dei paesi ricchi alle importazioni che possono avere contraccolpi negativi sulla loro economia. In campo commerciale, invece, le importazioni forzate imposte ai paesi poveri da chi gestisce il FMI hanno sbilanciato il sistema import/export sgretolando alle radici i presupposti per la nascita di sistemi produttivi in grado di reggere la concorrenza internazionale.
Tutto ciò ha comportato il fatto che il divario tra i ricchi e i poveri nel mondo è andato crescendo ulteriormente nell’ultimo decennio. Un divario così ampio, per essere colmato, richiede l’avvio di riforme graduali e regionali su scala continentale guidate e sostenute da organizzazioni internazionali e da Stati in grado di promuovere una sorta di liberismo organizzato, cioè un sistema in cui il mercato internazionale venga governato in modo responsabile in direzione di un’apertura graduale e lo sviluppo sia maggiormente distribuito ed equilibrato.
A questo nuovo stadio nell’organizzazione dell’ordine mondiale non si è evidentemente ancora giunti e l’emergere a Cancun dei contrasti tra Usa e un gruppo di paesi guidati da una sempre più forte Cina allontanano ancora di più la prospettiva di raggiungere qualche forma di stabilità nel breve termine. Inoltre l’impotenza degli Stati Uniti nel gestire e nel risolvere da soli i problemi dell’economia mondiale evidenzia ulteriormente il vuoto di potere generato anche in campo economico dall’assenza di uno Stato federale europeo di dimensione continentale.
In conclusione non ci si deve meravigliare se, nella misura in cui i paesi europei continuano ad appiattirsi su posizioni nazionali per definizione al traino della politica degli Stati Uniti, l’Organizzazione del Commercio Mondiale appare sempre di più come una delle sedi in cui si manifesta l’attuale disorganizzazione del mondo e in cui si riesce al massimo ad esprimere un rifiuto delle attuali “regole” internazionali senza tuttavia riuscire a promuovere alternative reali che permettano di avviare a soluzione il problema drammatico dell’ingiusta distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo.