Due piccoli fatti accaduti recentemente in Francia e in Germania testimoniano da un lato la difficoltà degli europei di fare i conti con il proprio passato e, dall’altro, il tentativo di non rinunciare a ritagliarsi un ruolo di piccola potenza in un mondo sempre più dominato dai grandi Stati di dimensioni continentali. Sono segnali indicativi di quanto sia ancora forte, anche in questi due Paesi, l’idea che si debbano innanzitutto difendere gli interessi nazionali, senza riflettere sulle conseguenze che un mancato impegno a fondere a breve i loro destini in uno Stato federale europeo avrà sul futuro degli europei e del mondo.

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Il primo fatto riguarda l’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale francese della legge del 23 febbraio 2005 “portant reconnaissance de la Nation et contribution nationale en faveur des Français rapatriés” che all’art. 4 così recita: «I programmi di ricerca universitaria accordano alla storia della presenza francese oltre mare, e soprattutto in Africa settentrionale, il posto che meritano. I programmi scolastici riconoscono in particolare il ruolo positivo della presenza francese oltre mare, soprattutto in Africa settentrionale, accordano alla storia ed ai sacrifici dei combattenti dell’esercito francese in questi territori il posto eminente al quale hanno diritto. A questo scopo è incoraggiata la cooperazione che favorisce la condivisione di fonti orali e scritte disponibili in Francia e all’estero”. Il 29 novembre l’Assemblea nazionale ha ridiscusso questa legge su richiesta dell’opposizione, che a suo tempo non aveva sollevato particolari obiezioni sull’entrata in vigore della legge stessa, ma che aveva presentato un emendamento (alla fine respinto a maggioranza) per abrogare l’articolo 4. L’acceso e appassionato dibattito parlamentare si è trasformato in alcuni momenti in un pubblico esame di coscienza della classe politica francese sul significato dell’epoca coloniale e sul ruolo della Francia come “potenza civilizzatrice”. Destra e sinistra, divise sui dettagli della legge, si sono trovate sulla stessa lunghezza d’onda nell’esaltare il mito della nazione, senza ovviamente poter spiegare cosa si debba intendere oggi quando ci si riferisce alla nazione francese. Emblematico a questo proposito il deputato socialista M. Jean-Marc Ayrault, sostenitore dell’abrogazione dell’art. 4 della legge, che ha detto: “L’unità di una nazione si forgia nella coscienza di quel che è, e non nella nostalgia di ciò che è stata”. Ayrault non ha potuto o vluto chiarire cos’è la Francia oggi. Dello stesso tenore l’intervento del deputato socialista della Guadalupa, M. Victorin Lurel: “Noi vi chiediamo di ricollegarvi alla nazione, con la sua eredità commemorativa di uno Stato, di una società, di un passato comune, di un presente fatto di integrazione, di volontà di vivere insieme e di eredità culturali. Noi vi diciamo, proprio perché vogliamo che si giunga alla condivisione nazionale di una memoria dolorosa, fatta di luci ed ombre, di un passato che non è morto e che non è neppure un passato, che questa legge, che lo vogliate o no, prima o poi verrà abrogata”. Anche in questo caso il deputato Lurel non ha potuto spiegare che cosa significa in concreto ricollegarsi alla nazione. Sul fronte opposto ha replicato il deputato della maggioranza, favorevole al mantenimento dell’articolo, M. Christian Kert, con questa domanda: “L’abrogazione di questo articolo non darà la spiacevole impressione di una ritirata dello Stato sovrano francese nei confronti dello Stato sovrano algerino che, per bocca del suo presidente, ha recentemente maledetto l’avventura francese di cento trenta anni in Africa?”. Kert sembra aver dimenticato che lo Stato sovrano francese si è già materialmente inchinato davanti alla sovranità algerina oltre quarant’anni fa.
Di fronte al problema concreto, pressante e sentito da parte dell’opinione pubblica, di garantire la convivenza con il resto della società in condizioni di pari dignità economica e giuridica a decine di migliaia di rimpatriati dalle ex-colonie in Africa e in Asia e ai loro figli (molti degli intervenuti all’Assemblea nazionale francese hanno rivendicato queste origini), la classe politica francese non ha saputo fare di meglio che rifugiarsi in una retorica nazionalista destinata ad accrescere, invece che a smorzare, i motivi di tensione sociale all’interno e gli attriti diplomatici verso l’esterno della Francia. Come non si è resa conto qualche mese fa, in occasione del referendum sul Trattato costituzionale, che non è con la retorica europeista che si fa avanzare l’Europa, così non si è resa conto che non è con le rivendicazioni patriottiche, per quanto ammantate di richiami ai valori universali della rivoluzione, che si sciolgono i nodi del passato.

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Un secondo fatto, che testimonia del potere di attrazione esercitato dalla difesa dell’interesse nazionale sulla politica dei Paesi europei, è rappresentato dall’annuncio fatto dal Ministro degli interni della Sassonia al parlamento di Dresda il 28 novembre scorso, con il quale è stata confermata la decisione del governo di Berlino di creare a Lipsia una importante base militare al servizio della Forza di rapido intervento della NATO e dei Gruppi di combattimento dell’Unione europea. Poiché è evidente la diversa natura e consistenza dei due apparati militari - sotto l’egida degli USA il primo, dotato di scarse e scoordinate risorse multinazionali il secondo -, e poiché il ministro della Sassonia ha tenuto a precisare che nulla vieta che l’aeroporto serva da base di transito di armi nucleari e non convenzionali, è facile dedurre che un simile approccio non tende a favorire il rafforzamento di un sistema di sicurezza europeo autonomo, ma a spostare ad est il raggio d’azione della NATO. Qualora la base di Lipsia diventasse operativa (già entro l’anno prossimo), ciò rappresenterebbe una violazione del trattato Quattro più due del 1990 tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale e le due Germanie, in base al quale veniva bandito, su richiesta dell’ex-URSS lo stazionamento ed il transito di truppe straniere e di armi nucleari nella ex Germania orientale. Evidentemente la cosa non preoccupa granché il governo tedesco: l’URSS ormai non esiste più; gli USA mantengono un ruolo egemone in Europa e la difesa europea è un’espressione verbale. In questo contesto la Germania rende omaggio agli europei offrendo loro una base multinazionale (inservibile senza l’appoggio logistico americano), favorendo invece concretamente la politica della potenza americana. Ma tutto ciò non rientrerebbe appieno in una difesa oculata dei propri interessi nazionali. Perciò, per controbilanciare questa scelta e non inimicarsi il vicino russo, la Germania ha in parallelo rilanciato la sua Ostpolitik nei confronti di Mosca. Il punto sensibile di questa politica è lo stesso che, già ai tempi del bipolarismo, aveva causato qualche frizione con l’America: lo sviluppo delle reti per il trasporto di materie prime in campo energetico. E’ in questa logica che si inquadrano gli accordi Schroeder-Putin del settembre scorso, che hanno condotto alla creazione di una società al 51% russa (Gazprom) e per la restante parte tedesca (una sussidiaria della BASF e la Eon, che già controlla il traffico dal Caspio), al fine di gestire il gasdotto nel Baltico che collega direttamente Russia e Germania.
Queste scelte hanno già provocato malumori a Est (paesi Baltici e Polonia), come ad Ovest (Francia) e a lungo andare non sono compatibili con lo sviluppo di una politica autonoma europea nel campo energetico e della politica estera e di sicurezza. Non è usando l’Unione europea come foglia di fico per coprire politiche in campo militare e commerciale che in prospettiva avvantaggiano la Germania rispetto agli altri paesi europei che si può creare un clima favorevole al rilancio della unificazione europea.

 

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