Agli inizi del '700 quasi tutto il sapere scientifico su cui si sarebbe basato gran parte del successivo sviluppo industriale ed economico dell’Occidente era prevalentemente concentrato in un triangolo formato da Londra, Cambridge e Oxford, mentre la Royal Society era il punto di riferimento degli studiosi e degli inventori di tutta Europa. Nei secoli successivi questo seme si sarebbe solidamente installato anche nel continente europeo (in particolare in Francia e Germania), nell’America del Nord, in Giappone e in Russia. Negli ultimi decenni esso ha incominciato a radicarsi con successo anche nei grandi Stati asiatici indiano e cinese, al punto da diventare un importante fattore della loro ascesa.
Questo décentrage preoccupa molto gli americani e gli europei, che avevano potuto contare fino a qualche decennio fa non solo su di un innegabile vantaggio, ma addirittura su di una indiscussa leadership nel campo dell’innovazione scientifica e tecnologica. Per i primi la preoccupazione nasce dalla presa d’atto dei possibili riflessi, anche militari, di questa ascesa in termini di rapporti di potere fra grandi Stati continentali. Da qui il dibattito che negli USA coinvolge istituzioni (il Congresso, gli enti federali) ed Università attorno al varo di un nuovo grande piano di incentivazione e ristrutturazione del sistema educativo statunitense (sulla falsariga di quanto fu fatto all’indomani del lancio del primo satellite sovietico negli anni cinquanta del secolo scorso). Per gli europei si tratta invece di constatare il grado di crescente distacco, non solo rispetto al potenziale scientifico e tecnologico americano, ma in prospettiva anche rispetto a quello asiatico.
Sul piano quantitativo né gli USA, né tantomeno gli europei possono sperare di competere a lungo su questo terreno con i giganti asiatici. Per esempio già adesso Cina ed India sono in grado di sfornare un milione di ingegneri all’anno, contro i 170mila di USA ed Europa occidentale. Anche ammettendo con una buona dose di presunzione (ed arroganza) come fanno certi centri di ricerca euro-atlantici, che solo il 10% degli studenti cinesi ed indiani conseguano una preparazione paragonabile a quella della metà degli studenti americani ed europei, la Cina e l’India sono già in grado di produrre un maggior numero di ingegneri qualificati.
Gli USA conservano un potenziale economico e politico che consente loro di competere con le nascenti superpotenze tecnologiche.
Invece l’Unione europea cerca di rispondere alla sfida posta dalla globalizzazione anche sul terreno della competizione tecnologica e scientifica rilanciando periodicamente progetti (come il piano Delors e quello di Lisbona) e della creazione di poli di eccellenza (come lo European Institute of Technology di cui si è occupato anche l’ultimo Consiglio europeo) che hanno scarse possibilità di essere avviati e, quando lo sono, di avere successo. Infatti essi non sono inquadrati in alcuna politica statuale europea ma restano, nella migliore delle ipotesi, sul terreno della cooperazione volontaria fra più Stati che continuano a difendere interessi contraddittori e spesso in conflitto fra loro. Tutto si riduce così ad uno sterile tentativo di produrre sempre più e migliori scienziati e tecnici anche attraverso la creazione di poli universitari e istituti di ricerca d’elite che sono europei di nome, ma nazionali di fatto, che per definizione non hanno e non possono avere nulla a che fare con istituti tipo il MIT statunitense (solo di nome del Massachusets, ma di fatto poca cosa senza i sussidi – diretti e indiretti - del governo degli USA). Due dati di fatto testimoniano della situazione di inferiorità in cui versa la formazione scientifica e tecnologica europea rispetto alle superpotenze tecnologiche che si vanno organizzando nel mondo
Il primo dato di fatto è che gli europei, con i loro circa 2000 centri universitari (dieci volte quelli degli USA) in cui si conducono ricerche d’avanguardia e si rilasciano prestigiosi titoli, salvo rare eccezioni, non sono riusciti a creare un circolo virtuoso tra ricerca teorica, applicazioni tecnologiche e soddisfazione dei bisogni della società. Il risultato è che gli europei sono sempre più grandi consumatori e sempre meno produttori di applicazioni tecnologiche avanzate. A questo proposito, come ha ammonito recentemente il presidente della repubblica popolare cinese ricordando la storia del suo popolo, occorre sottolineare che nessun grande paese si può limitare a importare tecnologia per un lungo periodo della sua storia, pena la dipendenza e il declino.
Il secondo fatto è legato alla constatazione che l’esistenza di una rete di centri di ricerca e sperimentazione avanzata in competizione fra loro, è una condizione necessaria, ma non sufficiente per creare un quadro favorevole all’innovazione tecnologico e alla sua penetrazione nella società. La storia della nascita di Internet, promossa dai finanziamenti del governo USA per favorire lo scambio di dati tra i maggiori centri di ricerca dall’Atlantico al Pacifico, è a questo proposito tanto illuminante in senso positivo, quanto lo è in senso contrario l’invenzione nei laboratori europei del CERN dei primi browser per navigare in Internet, che ha finito per essere sfruttata dalle multinazionali del software e dell’elettronica americani. Per non parlare di quegli Stati come la Francia, che hanno cercato di fare una sorta di Internet francese (MINITEL) già negli anni settanta del secolo scorso, ma potendolo fare solo su scala nazionale, hanno dovuto poi rinunciarvi e piegarsi alla logica e agli standards continentali e globali degli USA.
La lezione da trarre da tutto ciò è inequivocabile. Il rilancio della scienza e della tecnologia nel continente europeo ed il suo corollario, le motivazioni per le nuove generazioni ad intraprendere carriere nel campo scientifico e tecnologico, passano attraverso la costruzione di uno Stato federale continentale dotato dei mezzi e delle politiche adeguati per affrontare a tutto campo le sfide globali del nostro tempo.