Ad un anno dal NO francese e olandese, la riunione del 27-28 maggio a Klosterneuburg dei Ministri degli esteri dei paesi dell’Unione europea e le dichiarazioni che sono state rilasciate da parte di vari esponenti politici non hanno potuto nascondere le difficoltà in cui si dibatte la costruzione europea e hanno invece cercato di mascherare dietro una serie di luoghi comuni e di parole vuote due semplici verità. La prima è che il Trattato costituzionale non è una costituzione. La seconda è che l’Unione europea è destinata a rimanere una organizzazione di Stati indipendenti che cooperano più o meno strettamente su base volontaria attraverso un complesso sistema di trattati internazionali; per questo sostenere che il rilancio dell’Europa politica possa avvenire sul terreno della riforma delle istituzioni dell’Unione europea attraverso l’adozione di qualche nuovo trattato nel quadro dei venticinque è un puro esercizio retorico che mira, consapevolmente o inconsapevolmente, a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze vive che ancora sono presenti nella società europea dal vero problema da risolvere: come trasferire la sovranità dal livello nazionale al livello europeo. Ma quando si vuol difendere l’indifendibile, come ricordava George Orwell nel suo saggio sulla degenerazione del linguaggio politico del 1946, tutto diventa incerto ed ambiguo, a cominciare dalle parole. Molti uomini politici si sono dedicati in questi giorni a questo esercizio.
Alla vigilia della riunione con i suoi colleghi, il Ministro degli esteri del Belgio De Gucht ha per esempio affermato che le attuali procedure immobilizzano l’Unione e che “occorre una regola grazie alla quale un trattato possa essere modificato a maggioranza”, aggiungendo subito dopo che “ovviamente un simile passaggio richiede, con le regole attuali, un voto all’unanimità dei paesi membri”. Il Ministro dovrebbe sapere, come ha del resto ricordato esplicitamente il Consiglio costituzionale francese (novembre 2004) quando ha espresso il suo parere sulla natura del Trattato costituzionale, che l’essenza di un trattato internazionale non muta modificando le regole in base al quale può essere rivisto, perché il nodo sta proprio nella possibilità da parte degli Stati contraenti, che rimangono sovrani, di denunciarlo in qualsiasi momento. Se si vuole che l’Europa diventi capace di agire non si tratta di stabilire nuove regole di convivenza tra Stati, ma di decidere se si vuole creare oppure no un nuovo potere.
Stesso discorso vale per il suo collega tedesco Steinmeier che ha invece proposto l’adozione di un nuovo Trattato fondamentale in sostituzione del Trattato costituzionale, ricordando che dopotutto il termine costituzione non è decisivo, perché anche la Germania si regge su di una legge fondamentale “che non si chiama Costituzione, ma che ha lo stesso valore legale”. Bisognerebbe allora ricordare che la Gran Bretagna addirittura non ha una Costituzione scritta, ma il punto è che non per questo essa cessa di essere, come lo è la Germania, uno Stato sovrano, proprio come invece non lo è l’Unione europea, con o senza il Trattato costituzionale o il Trattato fondamentale.
Da parte sua il neo ministro degli esteri italiano D’Alema, limitandosi ad affermare che occorre rilanciare e non abbandonare il Trattato costituzionale, ha sostanzialmente confermato il ruolo di spettatore che ricopre attualmente l’Italia, dimostrandosi incurante del fatto che questa posizione è ormai superata dagli avvenimenti. Lo è a tal punto che è stata di fatto già smentita dal Presidente del Consiglio Prodi nel suo viaggio a Bruxelles del 29 maggio. In questa occasione egli ha infatti affermato che “è impossibile andare avanti esattamente con lo stesso testo” e che è necessario ristabilire la bozza di un nuovo trattato in un’atmosfera più unita ed ottimista. Ma per quanto Prodi abbia voluto sottolineare che l’Italia vuole riacquisire un ruolo centrale in Europa non è certo con il sostegno alla ricerca di un compromesso accettabile per tutti, europeisti ed euro-scettici, che contribuirà a risolvere la crisi in corso.
Per concludere questa breve rassegna, vale la pena citare due interventi francesi sul quotidiano Le Monde (29-05-06), quello della possibile candidata alla presidenza della Repubblica Ségolène Royal, e quello dell’ex Ministro degli esteri e commissario europeo Michel Barnier. La prima ha ricordato che “quando la disoccupazione di massa sarà fermata, costruiremo l’Europa dell’ambiente, della ricerca, dell’innovazione… Quindi spiegheremo che forse serviranno delle regole comuni. A poco a poco questa Costituzione, anziché essere calata dall’alto, risalirà dai cittadini e l’Europa reale si concilierà con quella dell’utopia”. Ma perché mai i cittadini dovrebbero volere ancora un’Europa più unita se fosse davvero possibile affrontare tutti i grandi temi di cui parla Ségolène Royal con la cooperazione fra Stati? Michel Barnier invece ha voluto rassicurare gli europei sul fatto che “le idee non mancano. Eccone alcune che mi stanno particolarmente a cuore da tempo: la creazione (sic!) di un referendum europeo per ratificare per esempio le future modifiche del Trattato costituzionale europeo o l’ingresso di nuovi Stati nell’Unione; l’attribuzione di una quota di seggi al Parlamento europeo su liste transnazionali, che dovrebbero produrre un progetto europeo; una maggiore trasparenza dei lavori del Consiglio europeo dei Ministri, con la partecipazione di deputati e senatori a fianco del ministro che dovrà agire in campo legislativo”. Certo le idee non mancano, ma sono utili?
Come ricorda Jean Monnet, nei momenti cruciali “le parole non bastano” e occorre uno “specifico atto creatore”. Dopo oltre cinquant’anni di integrazione graduale; dopo che sono stati fatti tutti quei passi intermedi sulla strada di una sempre più stretta integrazione senza che fosse necessario il trasferimento dal livello nazionale a quello europeo del potere di decidere in ultima istanza nei settori cruciali dell’economia, della fiscalità, della politica estera e di difesa; dopo che il gradualismo istituzionale ha esaurito le sue possibilità di sviluppo in un’Unione europea che doveva essere una tappa intermedia verso la federazione europea e non il contenitore di un’area di libero scambio dall’Atlantico al Caucaso; dopo tutto ciò l’atto creatore non può che essere un’iniziativa per la nascita dello Stato federale europeo da parte di un gruppo inizialmente ristretto di paesi. E’ in questa direzione che i leader politici dei maggiori paesi fondatori, a partire da Francia e Germania, dovranno muoversi, come qualcuno ha già iniziato a fare, se non vorranno continuare a pronunciare parole inutili, contraddittorie e indifendibili di fronte alla dura realtà dei fatti.