Il 5 Agosto 2011 Standard & Poor’s ha assegnato un rating AA+ (rispetto al precedente AAA) ai titoli del debito pubblico americano, declassandoli così per la prima volta nella storia del paese. Le ragioni che sono state addotte fanno riferimento alla continua e rapida crescita del debito e allo stallo politico in cui si trova impantanato il Congresso americano.

Questo fatto ha, ovviamente, suscitato una profonda reazione negli Stati Uniti: Congresso e Casa Bianca hanno reagito indignati allo smacco, accusando l’agenzia di rating di avere commesso un errore di valutazione pari a 2000 miliardi circa le stime future. Ma molti economisti (da Krugman, a Beers, Buffet, ecc.) si sono fatti sentire sostenendo che il downgrade non avrebbe avuto effetti reali sul mercato. E così è stat

o, i titoli di debito americani hanno mantenuto un valore stabile nonostante la valutazione peggiorata. Riescono ancora a finanziare titoli a 30 anni, ad esempio.Per capire questi fatti bisogna tenere presente sia la situazione economicofinanziaria americana, sia la situazione politica globale. Al di là, infatti, della corretta valutazione del debito e delle diatribe politiche interne (Obama è continuamente accusato di essere colui che sta distruggendo l’America e continua a perdere consenso) si può effettivamente notare che la condizione statunitense non è rosea: la crescita in questo ultimo anno si è fermata all’1,7%, decisamente al di sotto delle aspettative, mentre la disoccupazione è al 9%, alcuni Stai membri versano in condizioni disastrose, come la California e l’Illinois, e il debito federale raggiunge ormai 14,5 trilioni di dollari. Sul piano internazionale gli Stati Uniti devono inoltre fronteggiare la continua crescita dei BRICS, che sono ormai protagonisti importanti dello scacchiere internazionale. La Cina, in particolare, che detiene, tramite i propri fondi sovrani, 1,6 trilioni di dollari del debito degli Stati Uniti, in queste condizioni fa pesare ulteriormente i propri interessi di creditore (arrivando addirittura a declassare a propria volta, con un forte gesto simbolico, il debito statunitense tramite il Dagong, una agenzia di rating cinese che pur non costituendo ancora un punto di riferimento per i mercati mondiali, ha una valenza politica per il paese asiatico). In poche parole, nonostante gli Stati Uniti abbiano la forza per rifinanziare il proprio debito a costi contenuti, le cause del downgrade sembrano essere valide. Così valide che S&P ha stabilito che se la situazione non dovesse migliorare gli Usa rischiano un ulteriore declassamento ad AA. E questo porta gli stessi economisti che avevano previsto uno scarso impatto sui mercati del primo downgrade a sostenere che, se anche nel breve periodo la superpotenza americana non avrà problemi degni di nota, è probabile che ne debba avere in futuro se la situazione non dovesse variare.

A cosa è dovuta questa situazione apparentemente schizofrenica? Una delle cause sta sicuramente nel potere statunitense di stampare dollari a «piacimento» (Congresso permettendo) e nel contempo di avere la valuta di riferimento mondiale. In questo modo la Federal Reserve finanzia i piani del governo e nel contempo svaluta il cambio del dollaro nei confronti delle altre monete, cosa che indirettamente comporta un abbassamento del debito pubblico (ad esempio, se il dollaro si deprezza rispetto all’euro, il valore del credito di un paese dell’eurogruppo nei confronti degli USA diminuisce di valore). Si tratta di una situazione che, ovviamente, non può piacere alla Cina, che infatti insiste vigorosamente sulla necessità di una riforma del sistema monetario internazionale che faccia perdere agli Stati Uniti il privilegio della valuta di riferimento. E ormai questa posizione è sostenuta anche dal Brasile, dalla Russia, dall’India e dal Sud Africa; ma per il momento si tratta ancora solo di ipotesi di dibattito.

Per il momento gli USA rimangono quindi una grande potenza politica, ed è proprio questo fatto che garantisce i tassi ancora favorevoli dei buoni del debito pubblico americano. Ma se gli Stati Uniti, come è molto probabile, non riusciranno a mantenere ancora a lungo questo tipo di egemonia e se si affermerà un nuovo sistema monetario basato sull’introduzione di un paniere che metta tutte le valute sullo stesso piano nel sistema dei cambi, la situazione può cambiare drammaticamente. Senza le «pallottole illimitate» sparate dalla Federal Reserve, l’America rischierebbe una seria crisi del debito che si diffonderebbe a catena in tutto il mondo.

A fronte di questa situazione di debolezza americana, l’Europa vive a sua volta una drammatica crisi del debito. E in mezzo a questa tempesta l’Italia è il paese più a rischio. Non è un caso, infatti, che il declassamento del debito italiano sia avvenuto a solo un mese e mezzo da quello USA. Il rating italiano è crollato ad A, e le motivazioni di Standard & Poor’s sono state analoghe: debito elevato (e, in prospettiva, insostenibile) e incapacità politica. Dopo nemmeno due settimane anche Moody’s ha comunicato un downgrade dell’Italia ad A2 rispetto al precedente AA2.

La situazione economicofinanziaria interna italiana effettivamente non è delle migliori: una crescita del PIL previsto ad appena lo 0,7%, contro un deficit di oltre 70 miliardi di euro ed un debito pubblico di quasi 2000 miliardi che rappresenta il 119% del PIL. Ma il punto centrale di questo downgrade del rating italiano (analogamente a quanto è successo con quello greco) è l’effetto a valanga che esso ha avuto sui mercati. L’Italia è infatti l’anello più debole della catena che lega tutti i paesi dell’euro: troppo indebitato e fermo per avere prospettive di ripresa, e troppo grande per poter essere salvato dall’intervento dei partner. Per questo non solo i titoli di Stato italiani hanno visto crescere i tassi di interesse (in parallelo all’aumento dello spread rispetto ai Bund tedeschi), ma tutte le borse europee hanno subito contraccolpi durissimi a causa del precipitare della fiducia nella sopravvivenza della moneta unica.

La crisi italiana del debito si innesca così su quella di tutta l’Eurozona, che, invece, è una crisi politica, molto più che economica. E’ la mancanza di un governo economico dell’euro, e quindi la necessità dell’unità politica dell’area della moneta unica, che rende fragilissimi i suoi membri. E mentre gli Stati Uniti fanno la loro politica e riescono ad ignorare il downgrade, almeno per qualche tempo, l’Italia vede avvicinarsi due attori economici che preferirebbe evitare: l’Fmi e la Cina. Due proposte, due salassi. La Cina ha offerto all’Italia, tramite il China Investment Corporation, il fondo sovrano di Lou Jiwei, un contributo nell’acquisto dei titoli italiani (non facili da piazzare ultimamente) per una quota che va dal 4 al 10% del debito pubblico, ossia intorno ai 100 miliardi di euro. La contropartita richiesta mostra la lungimiranza strategica da vera superpotenza della Cina: quote di partecipazione, ancora da concordare, in Enel ed Eni. Confermando, quindi, l’atteggiamento generale della Cina che, sollecitata nelle ultime settimane dagli europei ad entrare nel Fondo europeo di stabilità (il EFSF) ha risposto sostenendo di preferire il tramite del FMI per un intervento a sostegno dell’Europa e chiedendo in cambio un aumento delle proprie quote all’interno del Fondo monetario internazionale e la partecipazione nelle imprese leader dei vari paesi dell’Eurogruppo. Da parte sua l’Fmi si è detto disposto ad accrescere il proprio intervento in Europa, e in particolare nei confronti dell’Italia, ma dettando, in cambio, condizioni ferree di politica economica.

E se invece l’Eurogruppo si unisse e diventasse una federazione? Si intravedrebbero subito due vantaggi eccezionali. Il primo relativo al tasso di interesse del debito, che, a questo punto, sarebbe unico europeo e sicuramente più basso rispetto a quello attuale, perché i fondamentali  dell’Eurogruppo nel suo insieme sono molto più solidi e immediatamente potrebbero valere come tali. Il secondo riguarda i casi oggi praticamente senza speranza, come quello greco, ma ancor di più quello italiano, che non verrebbero affrontati, come oggi, sulla base di un impegno reciproco a sostenersi da parte di Stati indipendenti (e quindi animati da punti di vista e interessi divergenti, con opinioni pubbliche riottose a spendere per “gli altri”); ma rientrerebbero nel quadro della solidarietà istituzionalizzata nella comune Federazione, in cui, al di là delle modalità scelte per intervenire sui singoli casi, vale il principio dell’interesse comune, e non si creano quindi lacerazioni nel consenso dei cittadini delle diverse aree (come insegnano gli Stati Uniti).

Ma esiste un terzo vantaggio: ed è che la Federazione europea diventerebbe capace di agire come attore della politica internazionale, e avrebbe un ruolo di leadership cruciale nella definizione dei nuovi assetti di potere globali; questo vale sia sul piano economico, perché con piani europei per la crescita e lo sviluppo tornerebbe credibile un nuovo slancio dell’economia del nostro continente, con vantaggi per tutti; sia sul piano politico. Si tratta di una prospettiva così vera, che i primi tifosi di una Federazione europea li troviamo in Cina e negli USA. Come ci ricorda Clinton, riferendosi alla crisi del debiti europei, si tratta di una crisi “che nasce dal cuore dell’Europa perché i suoi Stati hanno creato una cooperazione monetaria debole ma stentano a diventare gli Stati Uniti d’Europa”. Sta a noi europei, dunque, saper andare in quella direzione, e trasformare la crisi drammatica che ci sta attanagliando nella grande opportunità di creare finalmente lo Stato federale europeo: a partire dai paesi dell’Eurozona che, sotto la spinta dell’emergenza, devono maturare la volontà di compiere questo salto rivoluzionario.

 

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