L’Europa non contribuirà granché alla crescita mondiale. L’incremento del PIL aggregato nel 2002 dei paesi dell’Unione sarà solo dello 0,8% e nel 2003 le previsioni dicono che si attesterà con difficoltà sul 2%.
La crisi economica si rispecchia anche nell’andamento dei conti pubblici: il rapporto deficit/pil della Germania supererà il limite del 3% fissato dal Trattato di Maastricht, raggiungendo prevedibilmente il 3,8%.
Come era da aspettarsi, la Commissione ha avviato la procedura di deficit eccessivo per la Germania, così come aveva fatto per il Portogallo; mentre per la Francia molto vicina al 3% è stato emesso un “early warning”.
Lo scenario che emerge deve far riflettere. In assenza di cambiamenti strutturali o innovazioni istituzionali, la dinamica del PIL è insoddisfacente e per di più declinante, ed è prevedibile che, in assenza di shock positivi, un’attenuazione del dinamismo della componente estera sarà sufficiente a spingere l’economia europea verso ritmi di crescita ancora più modesti. Mancano, infatti, fattori forti di una crescita endogena: la politica della BCE non dà sufficienti stimoli ed il Patto di Stabilità impedisce ogni sostegno fiscale.
Occorre ricordare che l’obiettivo principale della BCE è il controllo sulla stabilità dei prezzi e, solo subordinatamente, la crescita dei Paesi dell’Unione. Inoltre, i fattori che condizionano negativamente il timing e l’efficienza della politica monetaria sono molteplici. La stessa conduzione della politica monetaria da parte della BCE avrebbe bisogno di aggiustamenti tecnici nel processo decisionale, dato che il consiglio direttivo è costituito da diciotto membri che sono l’espressione di interessi nazionali a volte divergenti. In più, l’assenza di un bilancio comunitario rilevante a fini compensativi dell’asimmetria degli shock e la politica fiscale parcellizzata e poco armonizzata non favoriscono certo né il compito della Banca Centrale, né l’espressione delle potenzialità di sviluppo dell’area. Anche l’esistenza di forti divari di produttività e di inflazione contribuisce a rendere di difficile soluzione il gioco del policy maker monetario. Dunque la BCE è “costretta” a condurre un politica in un’area monetaria non ottimale.
In questi giorni si discute sulla possibilità di modificare il Patto di Stabilità al fine di tenere stabilmente conto, nel calcolo dei deficit di bilancio pubblico ammissibile, della componente ciclica dell’andamento economico. Ma il Patto di Stabilità ha anche lo scopo di contingentare il ricorso al mercato finanziario da parte dei paesi membri per finanziarsi in funzione anticongiunturale, perché una politica espansiva promossa da uno Stato danneggia gli altri, se non altro a causa del rialzo del tasso di interesse, e quindi della lievitazione della spesa per interessi, che la domanda aggiuntiva di capitali determina. Ma anche una politica di investimenti per supportare la crescita è stata limitata per lo stesso motivo, dato che la spesa per investimenti grava sul comune mercato dell’euro influenzando il tasso di interesse. Siccome siamo in uno scenario confederale in cui prevalgono gli interessi nazionali, perché mai uno Stato dovrebbe accettare le conseguenze di una maggiore domanda di capitali che derivasse da investimenti pubblici di un altro Stato? Anche se ne guadagnerebbe lo sviluppo dell’intera Europa, nell’ottica dei singoli Stati si tratta di un beneficio incerto, a medio-lungo termine, mentre nell’immediato, potenzialmente, viene incrementata la competitività solo di quello Stato che ha investito finanziandosi in disavanzo.
Appare così evidente l’incapacità dei paesi appartenenti all’area dell’euro di promuovere una crescita autonoma, basata su una forte domanda interna integrata, che invece dovrebbe essere, sotto il profilo economico, l’obiettivo di lungo periodo di un’area valutaria comune. Infatti, negli USA, cioè nell’area valutaria più efficiente del mondo, l’incremento del PIL è attribuibile per intero alla dinamica della domanda interna trainata principalmente dai consumi privati e dalla spesa pubblica in consumi e investimenti.
L’unica soluzione per innalzare il tasso di crescita potenziale è cambiare il modello econometrico europeo attraverso il trasferimento della sovranità ad uno Stato federale europeo dotato di una politica fiscale federale, che attutisca e compensi gli effetti asimmetrici di scosse di portata significativa provenienti dall’esterno o dall’interno dello Stato, e di una politica economica che promuova gli investimenti nelle infrastrutture europee a sostegno della produttività del settore privato e che crei sinergie tra gli strumenti economici e la politica monetaria.
In un contesto che si globalizza ed è caratterizzato da rapidi mutamenti economici, sociali e tecnologici, l’unico modo per evitare un futuro grigio è il mantenimento – attraverso l’innovazione – di un elevato livello di competitività e sostenibilità del sistema produttivo. L’innovazione deve caratterizzare non solo i prodotti e i processi produttivi, ma anche e fondamentalmente, i soggetti economici cioè le imprese e le loro diverse aggregazioni: le reti d’impresa e le acquisizioni e fusioni tra le aziende di grandi dimensioni europee. Il problema della statualità e del quadro nel quale uno Stato federale europeo può essere fondato diventa così la prova fondamentale per superare la crisi economica.