“Il protocollo di Kyoto non è in discussione”. Così i paesi in via di sviluppo, guidati da Cina e India, al vertice di Copenaghen, si dichiarano non disponibili ad uniformarsi alle pretese dei più ricchi.
Nel frattempo i vari leader europei ambiscono al raggiungimento di grandi obiettivi: Sarkozy punta alla diminuzione di un terzo dei gas a effetto serra rispetto agli attuali livelli d’inquinamento dell’aria in Europa, e il Regno Unito, sulla linea delle politiche ambientali precedentemente introdotte dall’exPremier Tony Blair, concorda pienamente e spinge nella stessa direzione.
Ma come stanno effettivamente le cose?
Al momento, a dispetto delle misure ufficialmente adottate, la diffusione di inquinanti nell’atmosfera è in continua crescita, soprattutto per colpa dei grandi colossi: gli Stati Uniti d’America innanzitutto, che detengono il primato dello spreco delle risorse, e le neonate potenze orientali, che si stanno prepotentemente imponendo nel panorama economico mondiale.
Se cerchiamo di assumere una visione più ampia, registriamo che negli ultimi cinquant’anni le emissioni di biossido di carbonio dei paesi più sviluppati sono raddoppiate e quelle dell’India e della Cina addirittura decuplicate; ma, di fronte a questi dati drammatici, tutti giocano ad un irresponsabile scaricabarile, fingendo di ignorare che il problema ambientale è reale e, soprattutto, è di tutti.
Basta quindi una rapida analisi per capire che quello che manca è uno sforzo comune improntato alla dimensione globale, che integri gli accordi regionali già stipulati. Non che questi siano sufficienti: soprattutto gli europei dimostrano tutta la loro inadeguatezza sotto questo profilo. I loro sforzi sono assolutamente disorganici, a causa della mancanza di una vera prospettiva federale (che trascenda il tanto decantato Trattato di Lisbona), mancanza che comporta una grave deficienza di democrazia, funzionalità e dinamicità degli organi decisionali europei, non permettendo la sottoscrizione di un patto ecologico vincolante per tutti gli Stati membri. Ironico, sotto questo profilo, che sia proprio la Carta di Aalborg (addirittura del 1994) a recitare che “sostenibilità a livello ambientale significa conservare il capitale naturale […] significa anche che il tasso di emissione degli inquinanti non deve superare la capacità dell’atmosfera, dell’acqua e del suolo di assorbire e trasformare tali sostanze.”
E pensare che una soluzione a questi problemi dovrebbe essere ricercata finanziando e incentivando la ricerca nell’ambito della biogenetica, ora come ora sostenuta quasi esclusivamente da fondi privati. Recentemente, in un’intervista moderata da John Brockman, giornalista scientifico statunitense, Richard Dawkins, genetista di fama mondiale e autore de Il gene egoista, e Craig Venter, luminare scienziatoimprenditore, discutevano di una stupefacente scoperta: la possibilità di sintetizzare in provetta, tramite modificazioni genetiche e biomeccaniche, forme di vita batteriche in grado di fagocitare anidride carbonica. Se per esempio un tale progetto venisse concretamente sostenuto dagli Europei, davvero uniti in un’unica identità federale, questo potrebbe contribuire a mettere in moto ricerche e a promuovere applicazioni industriali e civili su scala internazionale, capaci di incidere significativamente sul terreno del controllo della emissione di gas ad effetto serra nell’atmosfera.
Se si tiene conto che gli sforzi individuali e l’appello (abusato) al buon senso dei cittadini non riescono ad ottenere risultati rilevanti, anche perché la dimensione dei problemi travalica la possibilità di intervento dei singoli, appare evidente che solo un approccio capace di mettere in luce la necessità storica impellente del problema, senza però creare contraccolpi alla crescita economica (alla quale nessuno Stato è disposto a rinunciare), può rappresentare una strada percorribile per salvare il pianeta e i suoi abitanti. Come in tanti altri casi gli Europei, se fossero capaci di unirsi politicamente, potrebbero fare molto per dare l’esempio e aprire nuove strade.