I recenti e tragici avvenimenti in Ucraina, che hanno portato alla caduta e alla fuga del presidente Janukovich, hanno visto trionfare la rivolta popolare, che ha avuto il pregio ed il coraggio di persistere nelle proprie richieste sino alla caduta del presidente in carica.
Ancora una volta, si è trattato di una dimostrazione del fatto che non è più possibile piegare l’ondata di ribellione di una parte consistente della popolazione, come era accaduto anche nel corso delle Primavere arabe, cercando di mantenere lo status quo, come poteva accadere ai tempi della guerra fredda in cui le superpotenze erano abbastanza forti da imporre il proprio regime. Ma - come ancora una volta ci insegnano le Primavere arabe - il successo della rivolta, purtroppo non conclude la crisi del paese. Analogamente a quanto accaduto nei paesi del nord-Africa, la profonda debolezza e fragilità (anche democratica) della società rimane il maggiore problema per la nascita di un vero regime liberal-democratico (non dobbiamo dimenticare che alcune frange dei rivoltosi a Kiev appartengono a movimenti di estrema destra di ispirazione neofascista che hanno in spregio sia la Russia che l’Unione europea); e in più si aggiunge una situazione finanziaria ed economica drammatica.
La seconda vittima della tenacia della rivolta popolare è stata però l’imbelle Unione europea, accusata (anche pesantemente) per la propria inettitudine dagli Stati Uniti, il cui rappresentante ha avuto parole molto aspre che hanno fatto il giro del mondo (e per le quali le scuse sono arrivate con non casuale ritardo). Ma è questo uno dei nodi. L’Unione europea è uscita dal proprio torpore solo dopo che gli Stati Uniti hanno minacciato ritorsioni al governo ucraino in carica. E’ stato l’intervento dell’amministrazione statunitense a dare una svolta in chiave anche politica alla situazione che minacciava di degenerare ulteriormente. Gli USA, timorosi di ritrovarsi in una nuova crisi regionale in Europa, con gli europei incapaci di agire, sono intervenuti in prima persona, memori delle negative esperienze vissute nella ex Jugoslavia dove gli europei, da soli, avevano solo fomentato ulteriori disastri.
Le prossime settimane e i prossimi mesi saranno comunque decisivi per la sorte dell’Ucraina. La Russia, al momento, ha sospeso gli aiuti finanziari e non ha sottoscritto l’accordo politico: sarà importante vedere quali iniziative intraprenderà ora Putin in una regione strategica per la Russia.
In secondo luogo gli aiuti economici, per ora, sono stati preannunciati dal FMI e non dall’Unione europea che a Kiev, altro segno di debolezza, non si è presentata con la sola Ashton, ma con una troika franco-tedesca-polacca, perché l’Europa, a differenza degli USA non è capace di parlare con una sola voce.
Vi è poi una situazione interna al paese che si dovrà verificare: alcune regioni fortemente russofone (le più ricche ed industrializzate) come la Crimea e il Donbass hanno minacciato la separazione ed altrettanto hanno fatto – sul fronte opposto - alcune regioni dell’Ovest (come Lviv o Ternopoli) ove vi sono state manifestazioni di protesta popolare anche se non cruente come quelle della capitale.
Se l’Ucraina resterà unita o se si dividerà lo potremo sapere solo nei prossimi mesi. Certo che le elezioni previste per il prossimo mese di maggio si preannunciano quanto mai drammatiche per i temi che si dovranno affrontare, senza dimenticare il rischio di default se verranno a mancare gli aiuti finanziari.
Per noi europei, la lezione che dobbiamo trarre dalle vicende dell’Ucraina è che, ancora una volta, i ritardi dell’Europa nel farsi soggetto politico capace di offrire una prospettiva di reale stabilità ai paesi un tempo membri dell’Unione Sovietica, sta provocando danni gravissimi e contribuendo a togliere il futuro ad intere generazioni. Questi paesi sono chiamati dalla loro stessa storia e dalla propria posizione geostrategica a giocare un ruolo di ponte tra l’Europa e la Russia; una posizione che farebbe la loro fortuna, se solo, invece di una non-politica estera europea e di 28 cacofoniche politiche estere nazionali, ci fosse un soggetto europeo capace di imprimere un nuovo indirizzo innanzitutto ai rapporti con la Russia (al momento dominante, grazie al ricatto delle materie prime) e alla propria politica di vicinato. Oggi invece l’UE oscilla tra offerte di partenariato prive di vantaggi reali per questi paesi (e in grado solo di solleticare gli umori anti-russi), e il timore per la possibile conseguente irritazione del gigante russo. Quanto prima noi europei sapremo superare la debolezza che ci viene dalla divisione, e tanto più in fretta saremo in grado di contribuire realmente alla costruzione di un futuro.