L’integrazione in ambito militare può avanzare solo se i paesi che più sono andati avanti nel processo di integrazione europea affrontano la delicata questione della cessione di sovranità e della ripartizione dei poteri tra le istituzioni nazionali e quelle europee.
Lo scorso marzo, nel corso di un intervista rilasciata al giornale tedesco Die Welt am Sonntag, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha ribadito la necessità di costituire un “esercito europeo comune” per “dare forma ad una politica estera e di sicurezza comune e permettere all’Europa di assumersi responsabilità nel mondo”. Questa dichiarazione ha rivitalizzato il dibattito attorno al tema della difesa europea.
In seguito al fallimento del progetto della Comunità europea di difesa (CED) nel 1954, i governi degli Stati europei hanno scelto di preservare la propria sovranità nel campo della difesa e di gestire le questioni comuni europee con un approccio puramente intergovernativo.
Questa scelta ha fortemente penalizzato la difesa europea, per molteplici aspetti.
Sebbene le forze europee operino quasi esclusivamente all’interno di contingenti internazionali, esse sono finanziate, strutturate e gestite su base nazionale: le strutture di comando, i programmi di addestramento e la produzione di armi ed equipaggiamenti rimangono ancora di competenza dei singoli Stati. Considerata l’entità di questo genere di costi, una tale frammentazione delle strutture militari europee contribuisce ad un’importante dispersione di risorse e incide negativamente sull’efficacia delle azioni delle forze europee. Ad esempio, in occasione dell’intervento militare di Francia e Gran Bretagna in Libia è emersa la carenza di munizioni di precisione e delle infrastrutture necessarie per la logistica, mancanza a cui hanno poi fatto fronte gli Stati Uniti.
Per attenuare parzialmente queste carenze, la Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) e l’Agenzia europea di difesa hanno promosso delle iniziative quali il pooling and sharing, che consiste nella condivisione degli assetti, e il battlegroup, ossia una piccola unità militare multinazionale in grado di agire in modo rapido e flessibile per tamponare le situazioni di crisi prima dell’invio di un contingente maggiore. Affinché queste iniziative diano risultati efficienti è tuttavia necessario che i paesi europei condividano la stessa visione politica, le stesse ambizioni militari ed esista un sufficiente livello di fiducia reciproca. Potenzialmente si tratta di temi che hanno un forte impatto sulla sovranità degli Stati e perciò sono considerati particolarmente sensibili. A causa di ciò le iniziative di pooling and sharing hanno raggiunto risultati insoddisfacenti e non è mai stato impiegato alcun battlegroup. I governi europei prediligono pertanto altre modalità di accordo, in particolare iniziative bilaterali o cooperazioni tra alcuni paesi europei, come quella tra i paesi nordici, l’accordo tra Olanda, Belgio e Lussemburgo o il reggimento di fanteria a cui contribuiscono Italia, Grecia, Turchia, Albania, Bulgaria e Romania.
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Anche il mercato della difesa risulta fortemente penalizzato dalla frammentazione su base nazionale delle forze armate. A causa dell’importanza strategica e del livello di riservatezza della materia, il settore della difesa è rimasto escluso dal processo di integrazione del mercato unico europeo: gli Stati prediligono acquistare armamenti di produzione nazionale (nel 2012 l’82% del totale ) ed escludere la competizione con fornitori esteri.
L’aumento del livello tecnologico e del costo di sviluppo degli armamenti e, al contempo, le riduzioni dei budget nazionali per la difesa hanno tuttavia reso evidente le difficoltà degli Stati europei di finanziare da soli progetti di alto profilo. Alcuni Stati europei hanno quindi costituito dei consorzi, tra cui Airbus Group, per lo sviluppo di armamenti come l’elicottero NH-90, il caccia Eurofighter o il quadrimotore A-400M. Questi progetti sviluppati a livello continentale consentirebbero alle industrie europee di compiere notevoli passi avanti nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie. Il loro successo dipende però dal superamento di difficoltà che derivano dalla struttura dei consorzi, basati sulla cooperazione tra gli Stati. Questa non basta ad impedire il prevalere degli egoismi nazionali, che si traducono in ritardi, lievitazione dei costi e incertezza nel raggiungimento degli obbiettivi, come verificatosi nei casi del lanciatore Ariane 5 e del sistema Galileo. Recenti studi hanno evidenziato che gli europei producono 154 diversi tipi di armamenti (tra cui 14 diversi modelli di carri armati, 16 modelli di caccia, 15 modelli di siluri, etc.) a fronte degli 11 prodotti dagli americani. Le duplicazioni dei programmi di sviluppo e acquisizione di armamenti non permettono dunque di sfruttare le economie di scala e penalizzano la crescita dell’industria militare dalla quale dipendono le capacità operative delle forze armate e, in ultima analisi, la stessa politica di difesa europea.
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Le inefficienze economiche che derivano dall’assenza della difesa comune europea sono oggi più preoccupanti a seguito dell’impatto della crisi economica, che spinge i governi europei a ridurre i budget della difesa, quando la tendenza globale vede invece un aumento delle spese militari. Nell’Unione europea la spesa totale per la difesa tra il 2005 e il 2015 è diminuita del 9%, riducendosi al 1,15% del PIL; nello stesso periodo la Cina ha aumentato la spesa militare del 167%, la Russia del 97% (di cui un terzo dedicato al nucleare), l’India del 39% e il Brasile del 41%. Questi paesi, che non soffrono delle inefficienze europee, stanno colmando rapidamente il gap che li separa dalle potenze occidentali. In particolare la Cina ha dichiarato di voler raggiungere il livello di spesa degli Stati Uniti (anche se ad oggi è ancora pari ad un quarto di quella americana e nel 2014 ammontava al 2,1% del PIL contro il 3,5% degli USA).
I governi europei sono convinti di poter risparmiare sulla difesa contando sul fatto che gli Stati Uniti continueranno a garantire la loro sicurezza. In realtà, i tagli alla spesa pubblica che hanno ridotto le capacità militari statunitensi, il disimpegno in Iraq e in Afghanistan, lo spostamento del focus strategico americano verso l’Asia per contenere la Cina stanno mettendo in dubbio l’affidabilità del sostegno americano nelle questioni militari europee. In un quadro globale che diventa sempre più multipolare, l’Europa non può più permettersi di sottrarsi alle proprie responsabilità, delegando agli Stati Uniti, nel quadro della NATO, il compito di rappresentare l’intero blocco occidentale.
Come Spinelli aveva anticipato a seguito del fallimento del progetto della CED, senza una struttura federale europea l’unico ruolo che gli Stati europei avrebbero potuto giocare nel mondo sarebbe stato quello di “Stati tributari del comandante atlantico”. Mantenendo le proprie strutture nazionali, gli Stati europei non sono infatti in grado di avere un peso all’interno della NATO e subiscono la volontà dello Stato più forte, cioè gli USA. E quando non sono protetti dallo scudo degli Stati Uniti subiscono la volontà delle altre potenze mondiali, come accade con la Russia, oppure sono coinvolti loro malgrado nelle crisi che colpiscono il Vicino Oriente e l’Africa, come dimostra la crisi migratoria.
Ciò che sta accadendo ai confini dell’Europa rende sempre più necessario riempire questo vuoto di potere. Solo diventando un polo autonomo della politica mondiale l’Europa restituirà agli europei la possibilità di influire in modo efficace sulle questioni globali, rendendo possibile un equilibrio internazionale più stabile e pacifico.
Le proposte politiche che spingono nella giusta direzione della creazione di un esercito europeo non sono sufficienti se si limitano a promuovere meccanismi che rendano più efficiente la cooperazione fra Stati razionalizzando le risorse e i processi decisionali. L’integrazione in ambito militare può avanzare solo se si affronta la delicata questione della cessione di sovranità e della ripartizione dei poteri tra le istituzioni nazionali e quelle europee. Ciò è chiaramente possibile solo nell’ambito dei paesi dell’eurogruppo che hanno già avviato il processo di trasferimento della sovranità in ambito monetario. Un esercito europeo degno di questo nome comporta il potere di prendere decisioni strategiche, di procurarsi le risorse per realizzarle e di intraprendere azioni militari, richiede cioè un governo europeo. Risulta perciò difficile immaginare cessioni reali di sovranità in ambito militare senza affrontare da subito il tema della legittimazione democratica dei nuovi poteri assegnati alle istituzioni europee, in particolare i poteri legislativi e di controllo sul bilancio e sull’azione di governo.