Settembre è stato un mese denso di avvenimenti per l’Europa, a partire dalle decisioni assunte dalla BCE di intervenire sul mercato secondario delle obbligazioni in misura illimitata (seppur condizionata alla sottoscrizione di impegni ad hoc da parte dei governi che chiederanno un aiuto in collegamento con il Meccanismo europeo di stabilità); e proseguendo con la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 12 settembre, che, sbloccando la ratifica da parte della Germania dei trattati sul fiscal compact e sul MES, ha così rafforzato e reso credibile il passo compiuto dalla Banca centrale europea.

Si è trattato di due decisioni fondamentali per calmare almeno parzialmente la violenza degli attacchi dei mercati. Ora, però, la palla è tornata nelle mani della politica, che deve saper usare l’opportunità di questa finestra temporale di relativa quiete, che la BCE potrà preservare presumibilmente al massimo per un paio d’anni, per rendere operative l’unione bancaria, quella fiscale, quella economica e quella politica dell’eurozona, trovando il modo per conciliare questa nuova entità in fieri con il mantenimento del mercato unico e dell’edificio comunitario. E’ questa infatti la sola condizione per voltare definitivamente pagina nel rapporto tra l’euro e il resto del mondo.

Per il momento, almeno per quanto riguarda alcuni dei soggetti istituzionali cui spetta il compito di sviluppare questo processo, i segnali sembrano incoraggianti. La diffusa consapevolezza della gravità della crisi, che nessuno Stato europeo è in grado di risolvere da solo, si accompagna alla presa d’atto quasi unanime – al netto delle urla populiste dei nemici dell’Europa – dell’urgenza del completamento dell’Unione economica e monetaria, a sua volta inscindibile dalla necessità di risolvere il problema della legittimità democratica. Su questa base alcuni governi nazionali (su iniziativa della Germania) hanno annunciato a fine agosto di voler studiare proposte specifiche sui cambiamenti istituzionali necessari per costruire l’unione politica dell’eurozona e dei paesi che intendono farne parte. Il Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, a nome anche dei Presidenti della Commissione, della BCE e dell’Eurogruppo, ha reso pubblico lo stato dell’elaborazione delle questioni che stanno esaminando in vista della realizzazione dell’unione bancaria, fiscale, economica e politica dell’eurozona; per il momento il suo documento si limita più che altro a porre degli interrogativi, ma si tratta di domande cruciali che chiedono di valutare se e quali istituzioni specifiche servono nell’eurozona per risolvere il problema della legittimità democratica, e avanzano l’ipotesi di un bilancio separato dell’eurozona per avere un proprio fondo compatibile con i nuovi trattati appena sottoscritti dai paesi dell’euro e per affrontare le esigenze dell’unione bancaria, fiscale ed economica. Entrambe le questioni (quella delle istituzioni democratiche per l’eurozona e quella del bilancio separato) stanno già alimentando un dibattito intenso, in cui si confrontano proposte importanti anche dei governi, che vanno dalla questione di quale parlamento debba controllare l’esecutivo (un Parlamento europeo che lavori in composizione ristretta con i soli membri dei paesi euro o un nuovo parlamento espressione di quelli nazionali?) a quella dell’entità e della natura del bilancio separato (alimentato con risorse proprie, a partire da una tassa sulle transazioni finanziarie? Possibilmente finalizzato anche alla redistribuzione della ricchezza nella forma di ammortizzatori sociali?).

Anche la Commissione (oltre ad iniziare a presentare le prime proposte per l’unione bancaria), per bocca di Barroso, nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 12 settembre, davanti al Parlamento europeo, ha garantito che presenterà in tempo, perché sia oggetto di dibattito pubblico prima delle elezioni europee del 2014, il proprio progetto circa la forma della futura Unione europea insieme alle proprie idee per la modifica dei Trattati, ammettendo, per la prima volta, sia la necessità di modificare l’attuale quadro dell’UE per poter completare una profonda e autentica unione monetaria e realizzare un’unione politica, sia l’esigenza che i paesi dell’eurozona si integrino maggiormente rispetto agli altri e sottolineando che “nessuno sarà costretto a partecipare, e nessuno sarà costretto a restarne fuori”, ma che “la velocità non sarà dettata né dal più lento, né dal più riluttante”. Si è trattato di un discorso politico, forse per la prima volta da parte di Barroso, ricco di richiami all’esigenza di rendere l’Europa capace di diventare protagonista della scena internazionale, alla necessità di voltare pagina rispetto ai limiti dell’attuale costruzione, ai partiti perché avviino un dibattito pubblico e un confronto realmente europeo sul futuro dell’Unione, e culminato nel lancio di un appello a sostegno “di una federazione democratica di Stati nazionali in grado di affrontare i problemi comuni grazie ad una sovranità condivisa”. Ovviamente la Commissione intende impegnarsi perché l’avvio di forme nettamente differenziate di integrazione non significhi la fine delle attuali istituzioni europee, ma la sfida dell’esigenza di dover conciliare il completamento dell’Unione economica e monetaria con il quadro più ampio dei paesi che limitano la propria partecipazione al mercato sembra chiarissima. Del resto, l’ampiezza del dibattito su questi punti è confermata anche dal rapporto finale dei Ministri degli esteri degli undici paesi (Germania, Francia, Italia, Austria, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Polonia, Danimarca, Spagna e Portogallo), che hanno concluso i lavori del gruppo creato per riflettere sui cambiamenti necessari in Europa, e che hanno a loro volta sottolineato l’urgenza di rafforzare l’unione economica e monetaria completandola con le unioni bancaria, fiscale, economica e politica, mostrando sia di aver discusso molti dei punti sollevati anche dagli altri rapporti, sia che alcuni governi pensano con chiarezza un futuro assetto federale per l’eurozona.

Unica voce assolutamente stonata è invece quella del Parlamento europeo che, nella nota di riflessione rilasciata il 1° ottobre dai suoi quattro rappresentanti incaricati di seguire i lavori preparatori relativi alle riforme dell’UEM, hanno voluto soprattutto sottolineare il fatto che non ritengono necessari cambiamenti sostanziali delle istituzioni, limitandosi, in sostanza, a richiedere che lo status quo non venga messo in discussione neanche nell’ipotesi di “integrazioni differenziate”. In questo modo l’istituzione che, alla vigilia delle prime elezioni dirette a suffragio universale nel 1979, Willy Brandt aveva salutato come l'Assemblea costituente permanente dell'Europa, e che il premio Nobel Andrej Sacharov aveva interpretato come il trampolino di lancio della democrazia sovranazionale, non solo abdica totalmente al proprio ruolo e sconfessa completamente l’eredità di Spinelli, che lo aveva reso protagonista di una grande battaglia costituente; ma, con la sua difesa ad oltranza dell’attuale ripartizione dei poteri, codificati nel cosiddetto metodo comunitario, pone un problema gravissimo che investe direttamente le forze politiche: queste ultime dimostrano di non saper dare alcun contributo per far progredire il processo europeo e si condannano alla totale marginalità. Viene così a mancare uno dei fattori essenziali per l'avvio di un effettivo processo democratico in Europa: il contributo dei partiti per far nascere una battaglia politica europea in cui coinvolgere i cittadini, mobilitandoli nel dibattito costituente a sostegno di una Federazione europea capace di agire e di rispondere ai cittadini europei del proprio operato.

E’ difficile pensare che un cambiamento radicale del quadro del potere e l’avvio di un nuovo patto costituzionale destinato a far nascere una nuova comunità politica possa vedere la luce senza un profondo dibattito politico e senza il coinvolgimento dei cittadini. Ma una cosa deve essere chiara: la crisi dell’Europa ruota intorno alla sopravvivenza della moneta unica, ed è strutturale, perché affonda le radici nell’inadeguatezza della dimensione dei paesi europei nel mondo globalizzato e nell’assoluta precarietà e insufficienza del sistema comunitario costruito all’ombra di equilibri internazionali ormai definitivamente tramontati. L’alternativa, per gli europei, tra dar vita agli Stati Uniti d’Europa o perire, è drammaticamente reale ed urgente. Arroccarsi, pertanto, nella difesa di un quadro che è stato in parte compatibile con il progetto del mercato unico, ma che assolutamente non ha corrisposto alle esigenze di governo politico sovranazionale poste dalla creazione dell’unione monetaria, e che quindi non ha futuro, è semplicemente antistorico e irresponsabile, e può solo contribuire alla sconfitta del progetto federalista democratico. Non servirà a fermare il processo di differenziazione dell’eurozona rispetto alla Gran Bretagna e ai paesi euroscettici, servirà solo ad escludersi dalla possibilità di influire sul modo in cui questa differenziazione andrà definendosi. Non è un caso che sia la Commissione, sia la BCE e sia la presidenza del Consiglio europeo, nelle loro diverse capacità e prerogative, ne abbiano preso atto e abbiano scelto di cercare di influenzare la nascita della “nuova Unione”. E che il governo britannico, con Cameron, inizi a porsi il problema di rinegoziare entro il 2015 le modalità di appartenenza del paese all’Unione europea.

La crisi ha costretto i paesi dell’eurozona alla rottura, e impedisce di mantenere inalterato il quadro a ventisette. Ma cosa nascerà nell’eurozona, se si tratterà degli Stati Uniti d’Europa o di un sistema intergovernativo, è una battaglia ancora totalmente aperta, al cui esito continua ad essere legata la vita o la morte dell’euro e del progetto europeo. Se infatti il completamento dell'UEM e l'unione politica che l'affiancherà saranno realizzati, ancora una volta, senza costruire un potere europeo democratico ed efficace, ma, viceversa, cercando ancora una volta di replicare il modello in base al quale gli Stati membri cedono sovranità e autonomia di governo ad istituzioni preposte al controllo reciproco ma prive - anche se magari affiancate dal parlamenti nazionali - di potere di iniziativa politica e di legittimità democratica derivata dal controllo diretto dei cittadini europei, gli europei continueranno a non avere gli strumenti per fronteggiare la crisi. E svanirà definitivamente il consenso dei cittadini verso il progetto europeo; consenso che è già in calo e legato più alla mancanza di fiducia nel quadro nazionale che alla fiducia nella possibilità che l’Europa diventi più unita e più forte.

Il tempo per fare la Federazione europea è breve, e dipende dal tempo che la crisi impiegherà a deteriorare la situazione sociale al punto che sfuggirà di mano.

Chiunque non sappia prendere atto della dura realtà dei fatti e continui a voler rimanere ancorato ad un modello che si è rivelato fallimentare, deve sapere che si assume la responsabilità di portare l’Europa al disastro.

 

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