La Siria brucia e infiamma la comunità internazionale. Quella che può apparire come una sanguinosa crisi interna è in realtà il tassello di un complesso scenario che mette in campo interessi globali e potenze di rango mondiale. E la prova del nove delle crisi nord africana e medio orientale rivela ancora una volta l’inconsistenza dell’Europa, il bluff dell’”interesse comune europeo”, fondato sulla pretesa volontà di espandere la sfera della pace edei diritti, che resta una finalità dichiarata e non perseguita.
In questa sede non vogliamo tanto indagare le cause che hanno portato il complesso mosaico di quarantasette tra etnie e gruppi religiosi della Siria a far esplodere una sanguinosa guerra civile, in cui l’unico scopo comune dei diversi gruppi politici in lotta sembra l’abbattimento del regime baathista di Bashar Assad (regime che un tempo fu faro ideologico di un panarabismo sociale, e che ora è degenerato a meraautocrazia). Piuttosto, vogliamo cercare di capire le conseguenze di questa crisi sui delicati equilibri globali e della regione. La posizione geopolitica della Siria è infatti centrale nel Grande Medio Oriente, a diretto contatto con la Turchia (e quindi con la Nato), il Libano ( porta commerciale dell’area), l’Iraq (ridotto a satellite statunitense ma che riveste un forte interesse per il vicino Iran), e non da ultimo Israele.
La Turchia, allontanatasi laprospettiva dell’integrazione europea e tagliati repentinamente i ponti con Israele dopo gli incidenti della Freedom Flottilla nel 2010, si trova nella possibilità di giocare il ruolo di pivot della regione, contando sul retaggio culturale ottomano, su di un’economia florida e su forze armate ben organizzate. L’Iran, che ha sempre supportato i gruppi sciiti siriani e libanesi, tra cui Hezbollah, vero Stato nello Stato, può sfruttare la pressione internazionale sulla Siria per accrescere la propria influenza. Israele, d’altra parte, persi gli alleati più prossimi, si ritrova a dover affrontare le minacce iraniane (minacce di distruzione che, è bene specificare, sono reciproche), cercando soluzioni al proprio dilemma della sicurezza che spaziano dall’idea paranoica di potersi isolare rispetto alle minacce esterne, al rischio calcolato di un intervento contro i siti nucleari iraniani.
Da una prospettiva più ampia, la questione siriana coinvolge però anche attori di rango globale, segnatamente la Russia, la Cina e gli Stati Uniti. In questa ottica, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che dovrebbe fungere da camera di compensazione rispetto ai diversi interessi delle potenze globali e costituire la sede della loro ricomposizione, assumendo il ruolo di garante della pace e della sicurezza internazionale, dimostra tutti sui limiti; esso, infatti, resta lacerato tra due visioni contrapposte, quella di forum di una comunità mondiale di Stati uguali e indipendenti (concezione un tempo tanto cara al gruppo dei paesi non allineati e ora fatta propria dai governi russo e cinese) e la visione post wilsoniana americana e britannica, che mira ad usarlo come strumento per la sostituzione, o la spinta all’evoluzione, dei regimi “scomodi” in senso democratico. Quest’ultima posizione, oltre ad essere difficilmente percorribile, si è rivelata nell’esperienza concreta quanto meno ipocrita, e in seguito al declino della leadership americana viene ormai contestata sempre più apertamente. Ciò che Russia e Cina non
possono accettare, infatti, è l’idea di intervenire nella sfera di sovranità dello Stato siriano. Si tratta di una strenua difesa della sovranità formale e sostanziale legata ai timori dell’effetto di eventuali forze centrifughe nelle aree periferiche e potenzialmente instabili dei due Staticontinente. Se si accetta l’idea che una forza d’opposizione politica interna possa essere riconosciuta dalla comunità internazionale come governo di uno Stato in sostituzione del legittimo (per quanto brutale) titolare, perché la stessa situazione non potrebbe ripetersi con un governatore ribelle di una provincia caucasica o centro asiatica? Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha eloquentemente dichiarato che la Russia non avrebbe fomentato una guerra civile e che nessun leader sano di mente deporrebbe le armi a seguito di una risoluzione ONU mentre vi sono gruppi ribelli armati nel proprio territorio.
Per quanto riguarda l’Unione europea, rispetto a questa contrapposizione, emerge chiaramente la contraddizione tra la volontà dichiarata di ergersi a paladino del soft power e di promuovere i diritti umani, e la politica post coloniale perseguita da alcuni Stati dell’Unione, che risulta quanto meno anacronistica data la dimensione del quadro e degli attori in gioco. Ad esempio, il 1° dicembre 2011 il Consiglio dell’Unione europea ha proibito l’esportazione verso la Siria di sistemi e software destinati al controllo di internet e delle comunicazioni telefoniche. Eppure questi sistemi, molto apprezzati dai regimi del Nord Africa nel recente passato, sono commercializzati proprio da aziende americane ed europee (tra le quali la francese Bull che ha venduto tramite una controllata il servizio di spionaggio telefonico al regime di Gheddafi, o la francese Qosmos che forniva centraline di controllo al regime siriano o l’italiana Area Spa ). Inoltre, la vendita di armi nella regione è sempre stato un lucroso affare per le aziende (spesso a partecipazione statale) europee.
La contraddizione risulta ancora più marcata se si pensa a Francia e Germania, Stati intimamente e necessariamente legati nella gestione della crisi della moneta unica (al punto da arrivare di fatto a svolgere il ruolo di supplenti del governo economico dell’eurozona), ma che perseguono politiche estere “nazionali” divergenti: la prima incentrata sui legami con il mondo mediterraneo e le ex colonie africane, la seconda incentrata sulla visione di sé stessa come leader nell’Europa centro orientale. Anche la gestione dei negoziati sul nucleare iraniano negli scorsi anni dimostra come una questione che investe direttamente l’interesse di tutti i cittadini europei (la proliferazione nucleare) sia stata affrontata in maniera frammentaria da alcuni dei maggiori Stati dell’Unione sulla base della tradizionale, per quanto ormai superata dai fatti, logica di potenza.
La domanda che bisogna porsi, tuttavia, non è quanto sia coerente la politica dell’Europa, ma piuttosto se e come sia possibile attuare una politica estera europea che non sia la somma di politiche estere nazionali e contraddittorie. Questa cacofonia di interessi e poteri, infatti, determina la mancanza di un grande polo di stabilità che potrebbe essere in grado di colmare il vuoto di potere nell’area mediorientale. La divisione degli europei in Stati nazionali ormai superati dalla storia e l’assenza di un potere politico europeo capace di elaborare una grand strategy per l’area mediorientale e nordafricana, impedisce interventi razionali e di ampio respiro, che non siano condizionati dai piccoli interessi contingenti. L’ignavia dei governi europei impedisce dunque non solo la promozione di quei valori di cui si dichiarano portatori, ma anche la stabilizzazione della regione del Grande Medio Oriente, teatro di uno scontro tra grandi potenze mondiali, mentre i regimi locali implodono senza essere sostituiti da governi più democratici e lungimiranti, e si concretizza il rischio della guerra.