Il futuro dell'Europa è incerto.
Da un lato, il progetto della progressiva integrazione politica, e i suoi fautori; dall'altro, il ritorno del progetto nazionalista con il suo messaggio distruttivo abbandonare l'Europa ed il progetto di integrazione.
Le imminenti elezioni politiche di Francia, Germania, Paesi Bassi e forse Italia (quattro paesi fondatori) saranno decisive per tracciare la rotta che il nostro continente dovrà seguire: quella dell'unione politica o quella della disunione nazionale.
I primi segnali, inutile negarlo, sono nefasti; l'UE ha perso l'appoggio di un fondamentale sostenitore della politica di integrazione, gli USA; come se ciò non bastasse, anche il consenso interno cede in alcune parti; Brexit, in questo senso, è un caso emblematico; negli altri stati membri, invece, alternative politiche demagogiche e semplicistiche sono acclamate da molti cittadini.
Il resto del mondo non è esente da profondi sconvolgimenti; persino gli USA, che rimangono ancora la più grande potenze mondiale, tendono ad assumere un approccio autoreferenziale, egoistico e chiuso. Tutti accusano la globalizzazione, giudicandola frettolosamente la causa delle peggiori crisi che turbano il nostro secolo: le diseguaglianze economiche, il malessere sociale, le emergenze umanitarie e climatiche.
Per approfondire la natura di questi fenomeni in fieri, può essere utile leggere criticamente le recenti dichiarazioni di tre figure politiche in questo momento al centro della vita politica internazionale.
Discorso di insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, 20/1/17
“Una nuova visione governerà il nostro paese: L'America prima di tutto!”
Donald Trump, neoeletto Presidente degli Stati Uniti, sceglie per il suo discorso di inaugurazione di lanciare un messaggio carico di retorica nazionalista, in cui espone con drammatica chiarezza i suoi intenti politici. Egli afferma inequivocabilmente che la sua politica sarà di stampo protezionista, volta a restaurare l'economia statunitense, stravolta, a suo dire, da anni di ininterrotti rapporti con altri stati approfittatori, seguendo un principio tanto chiaro quanto folle: “compra americano, ingaggia americano”.
Il 45° Presidente segna una profonda rottura con la linea post bellica di sviluppo e cooperazione internazionale, optando consapevolmente per un indirizzo politico che comporterà stravolgimenti globali e che determinerà “il corso dell'America e del mondo per molti, molti anni a venire”.
Ovviamente, è presto per giudicare l'operato; alle parole dovranno seguire i fatti.
Invece, è il momento giusto per giudicare le parole stesse, gravissime nel caso in questione; così come gravissimo è il declamato disimpegno americano nel supportare il progetto europeo, dal quale dipenderanno gli equilibri politici del futuro prossimo, e lunghi capitoli di una storia ancora imprevedibile.
L'irresponsabilità demagogica di Donald Trump è pari solo alla sua fallacia ideologica.
Discorso di Theresa May, Lancaster House, 17 gennaio 2017
“Stiamo abbandonando l'Unione Europea, ma non stiamo abbandonando l'Europa”
Theresa May, Primo Ministro del Regno Unito, ha annunciato l'intenzione di recidere gli attuali legami con l'UE, sulla scia delle scelte americane; sarà “hard Brexit”, e sarà una “tough defeat” per il progetto di integrazione europea.
Eppure la May sembra voler scongiurare un esito negativo; come lei stessa ha dichiarato: “Il successo dell'UE rimane chiaramente nell'interesse nazionale britannico”; inoltre esprime il suo desiderio a voler formare “una partnership nuova, positiva e costruttiva tra Regno Unito e Unione Europea”.
Ciononostante, il Primo Ministro sembra altrettanto determinato a contrattare relazioni che risultino unilateralmente vantaggiose per il popolo britannico, senza temere, apparentemente, nessun trattamento punitivo da parte dell'UE, stabilendo che “i giorni in cui il Regno Unito elargiva ampi contributi all'Unione Europea sono terminati”.
Cedendo a una retorica ancora più ambigua e pericolosa, formula le ipotesi più irrazionali; nel caso in cui i partner europei cercassero di attuare misure punitive, promette l'introduzione di un nuovo regime fiscale che favorisca le imprese, sentendosi in diritto di “fissare aliquote fiscali competitive e adottare politiche che attrarranno le più grandi imprese e i più grandi investitori del mondo”. Un'affermazione tanto chiara quanto minacciosa, che sicuramente non aiuterà a gestire una transizione delicata, sulla quale indugiano gli sguardi del mondo intero.
Discorso di Xi Jinping al World Economic Forum, Davos, 17 gennaio 2017
“Che piaccia o no, la globalizzazione è il grande oceano dal quale non si può scappare.”
Il presidente della Repubblica Popolare Cinese ha scelto espressioni icastiche per parlare di globalizzazione e di economia globale; colpisce la chiarezza nell'individuare le contraddizioni del caso, ma sopratutto i benefici potenziali del fenomeno.
Sfoggiando le sue convinzioni progressiste, invita gli ascoltatori ed il mondo intero ad affrontare positivamente un processo che oggi si presenta sopratutto attraverso turbolenze e disagi; in aperta opposizione strategica rispetto alla linea angloamericana, Xi Jinping sembra aver compreso perfettamente le condizioni di esistenza della contemporaneità, per le quali “oggi il genere umano è diventato una comunità di destino. I paesi hanno interessi convergenti e sono reciprocamente dipendenti”.
Ed è con altrettanta fermezza che esprime il suo impegno a “sviluppare investimenti e libero commercio globali […] dicendo no al protezionismo”. L'eco di grandi progetti di investimento e sviluppo internazionale, come il celebre OBOR, giunge perfettamente chiara.
Altrettanto inaspettato è lo slancio per uno sviluppo sostenibile, rispettoso di ogni comunità umana e dell'ambiente; a riguardo, Xi Jinping afferma severamente che “gli accordi di Parigi sono un risultato importante, e tutti i firmatari dovrebbero rispettarli”.
Conclusione
La posizione del leader cinese è antitetica rispetto a quella angloamericana; le due visioni sono politicamente inconciliabili; necessariamente, uno dei due approcci prevarrà, implicando la svalutazione del modello perdente e la crescente sfiducia per la potenza in declino.
Sorprende come gli USA, da sempre paladini della cooperazione e del commercio internazionale, stiano d’un tratto abdicando al loro ruolo-guida, inconsapevoli che “perseguire il protezionismo è come chiudersi in una stanza buia” .
Ancor più sorprendente è constatare come ad ergersi a sostegno dello sviluppo sostenibile e della globalizzazione sia il capo di uno stato primo al mondo per consumo di carbone, nel quale l'accesso a molti siti web stranieri è limitato.
La contraddizione è evidente; Cina e Usa pretendono di invertire i loro ruoli.
Nel giro di pochi mesi, gli equilibri di potere ed i giochi di ruolo della politica internazionale muteranno assetto; mentre è facile individuare il fenomeno, più difficile sarà ipotizzare le conseguenze. Un'Europa federale, all'interno di questa dinamica di riassestamento globale, giocherebbe un ruolo chiave, e riuscirebbe a influenzare politicamente l'esito del processo.
Riproponendo una provocazione distopica pubblicata su Spiegel Online, poniamoci il seguente quesito: “ci stiamo dirigendo verso un mondo nel quale la Cina – uno stato autoritario nel quale il Partito Comunista impugna l'economia, controlla i media e censura l'internet – domina il nuovo ordine mondiale?”