Il libro recentemente pubblicato con grande successo da Giulio Tremonti, il nuovo Ministro dell’Economia, intitolato La paura e la speranza, ha indubbiamente il pregio di permetterci di comprendere come una delle più importanti cariche dello Stato vede l’attuale situazione nazionale e internazionale. Suddiviso in due macrosezioni, appunto “La paura” e “La speranza”, cerca di spiegare di cosa dobbiamo avere paura per il nostro futuro e in cosa dobbiamo rifugiarci per riuscire a scongiurarla.
Tremonti parte analizzando il panorama economicopolitico globale che si è delineato negli ultimi anni, toccando prima le tematiche della globalizzazione e soprattutto dell’ideologia mercatista (termine suggestivo che però l’autore non spiega molto chiaramente) che l’ha sorretta e successivamente quelle relative alla decadenza della nostra società occidentale, causata dalla massificazione dell’uomoconsumatore (usando, a tratti, delle categorie un po’ folcloristiche, che richiamano una sorta di “lista di proscrizione simbolica” tipo quando si riferisce – cito – ai nuovi simboli, alle nuove icone, ai “nuovi totem: pop, rap, jeans, reality, ecstasy, pc, online, ecommerce, eBay, iPod, dvd, Facebook, r’n’b, disco, techno, tom tom”).
In sostanza, egli cerca di individuare le radici della crisi dei nostri paesi, che si manifesta sia con un aumento, cui non si assisteva da decenni, della povertà, sia con un sentimento di crescente insicurezza da parte dei cittadini. Al di là delle analisi che svolge, che spesso rasentano la provocazione, quello che egli correttamente sottolinea è l’abdicazione della politica di fronte alla pretesa dell’autoregolamentazione del mercato che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni. Gli effetti devastanti di questa mancanza di governo dei processi globali – effetti strutturali e di lungo periodo, in ogni settore – si ripercuotono drammaticamente sui paesi occidentali, sull’andamento della loro economia, sulla tenuta democratica dei loro sistemi politici, sui valori su cui si basano le loro società e che vengono trasmessi alle nuove generazioni. L’Europa è una delle prime responsabili di questa situazione, proprio per la sua assenza politica, che l’ha portata a credere che il mercato potesse sostituire il governo. In questo modo ha smesso di produrre idee e ha subito senza reagire la pressione esterna che la sta schiacciando, limitandosi a cercare di gestire l’esistente, ma senza porsi il problema di garantire il futuro dei propri cittadini.
E’ la politica quindi che deve assumersi il compito di ridare slancio alle nostre società e di rispondere alla domanda di senso ed al recupero dei valori morali e civili di questa Europa smarrita. Ma qui Tremonti, ancora una volta in modo forse provocatorio, ma sicuramente anche animato da uno spirito di restaurazione preoccupante, degenera, cercando di identificare non una politica che tenta di raggiungere un livello (che potrebbe solo essere sovranazionale ed europeo, in base a quanto spiega in precedenza) adeguato per affiancarsi al mercato e procedere ad esempio alla redistribuzione di ciò che esso ha prodotto. Piuttosto vuole genericamente una politica capace di fornire i “valori primi” e di scalzare quelli dell’economia, anche se non è dato sapere quali essi siano visto che Tremonti li confonde con i consumi, da cui sembra sinceramente ossessionato.
Ad esempio, un precetto di “rinascita” civile, per il Ministro dell’Economia, è il ristabilimento del principio di autorità, distrutto dal ‘68. Principio largamente indefinito ed indeterminato, ma da ristabilire nella pubblica amministrazione e nella scuola. Dall’autorità discendono l’ordine, ma anche la responsabilità. Per attuare compiutamente quest’ultima Tremonti ritiene esista una terza via, tra lo Statobabysitter deresponsabilizzante e l’individualismo estremo di matrice thatcheriana (“non esiste una cosa chiamata società, esistono gli individui”): questa terza via è la comunità, l’entità sociale entro la quale gli individui trovano compimento, e alla quale è possibile ed auspicabile delegare la gestione di molte funzioni di un welfare sempre più in crisi, nella sua declinazione statale e statalista: crisi fiscale, soprattutto, ma anche crisi da deresponsabilizzazione, oltre che da incapacità di cogliere i bisogni emergenti della società, nelle sue molteplici articolazioni. E da queste argomentazioni Tremonti trae spunto per lanciare il proprio progetto di sussidiarietà, basato sull’estensione del meccanismo del 5 per mille, e sull’introduzione di una detax. Quest’ultima verrebbe utilizzata anche per dare paternalisticamente “una speranza per l’Africa”.
Tremonti, dunque, alla prova delle proposte concrete, sembra sempre più in contraddizione con le sue analisi iniziali e convinto che le risposte a questa immensa crisi debbano provenire dai singoli Stati (per quanto “smantellati” a favore di non meglio identificate comunità locali), non considerando minimanate il livello di potere europeo e la totale inadeguatezza della dimensione subcontinentale per dare soluzione ai problemi di carattere globale.
Quando pensa all’Europa, il ministro, che a tratti sembra identificarla completamente con l’Italia, si riferisce piuttosto ai temi dei valori, della famiglia e dell’identità, prendendosela con chi ha rifiutato il riferimento alle radici cristiane della civiltà europea e condannando come se fosse una delle cause dello sfacelo
del nostro continente quella che, piuttosto incomprensibilmente, egli definisce la “famiglia orizzontale”, basata sul “consumismo” dei rapporti, delle relazioni e dei sentimenti.
Solo nell’ultimo capitolo del suo volume, Tremonti propone una riforma delle istituzioni comunitarie, con l’attribuzione al Parlamento europeo di un maggiore potere rispetto alla Commissione. Dopo aver scartato la soluzione federalista europea perché sarebbe “un’utopia non realizzabile al momento”, egli sottolinea come troppe norme siano state finora prodotte in Europa, e quasi tutte di tipo fintamente politico ed autenticamente burocratico. In Europa non abbiamo avuto alcuna riforma strutturale, alcun primato della politica, ma solo aggiustamenti al margine di “libri bianchi” o diversamente colorati. Prendere decisioni di reale discontinuità è ormai impossibile nell’Europa dei Ventisette dove trionfa il potere delle minoranze di blocco. Meglio quindi assegnare al Parlamento europeo, “l’unico parlamento al mondo che non ha iniziativa legislativa e dunque non ha piena competenza”, proprio quella iniziativa sulle materie che non sono più di competenza nazionale perché divenute di competenza europea. Da questa attribuzione di potestà legislativa originerebbe, sempre secondo Tremonti, la crescita di peso politico internazionale dell’Unione da mettere al servizio, tra le altre cose, anche della negoziazione di un non meglio specificato “Trattato di unione commerciale” tra Stati Uniti ed Europa. Questo “trattato” secondo Tremonti dovrebbe configurare un’area capace di applicare dazi alle economie emergenti del pianeta, magari sotto forma di “clausole sociali” o ambientali.
Lungi da noi l’idea di difendere questo assetto istituzionale europeo, ma il rimedio di Tremonti sembrerebbe addirittura peggiore del male, e porterebbe, nella migliore delle ipotesi, solo ad un eccellente nulla di fatto. Dopo aver elencato per pagine le politiche che l’Europa non ha e che dovrebbe assolutamente avere, egli, invece di pensare come attribuirgliele, propone stratagemmi per rafforzare (sic!) le competenze, del tutto secondarie sulla base dei suoi criteri, che essa già ha e che, sempre secondo lui, esercita già con troppa invadenza!
Esiste una formidabile barriera all’integrazione politica europea, lo sappiamo non da oggi. Questa barriera è rappresentata dagli interessi nazionali dei singoli Stati. Statinazione che esistono, malgrado la cessione totale di sovranità monetaria e in parte legislativa all’Europa. Soprattutto, nazioni che allo stato attuale delle cose non riescono a percepire che l’unica risposta alla crisi globale che stiamo subendo non consiste nel ritorno a un’ idea micronazionalistica, ma piuttosto in una risposta federale a livello europeo. Tremonti in tutto il libro non affronta mai questo discorso. Egli cita il federalismo solamente in chiave leghista per esaltare le località: “Il ‘campanile’ non può sostituire la nazione, ma può comunque compensare l’effetto di vuoto portato dalla crisi dello Statonazione”.
Dovendo dare un giudizio complessivo su questo libro non posso dire, purtroppo, che esso proponga qualcosa di serio e di concreto per risollevare l’Italia e l’Europa. A tratti sembra più un esercizio puramente polemico in chiave anticomunista/antimercatista, che offre come unica risposta all’attuale situazione mondiale la chiusura semiincondizionata e il ritorno agli antichi valori della società. Onestamente una “speranza” alquanto angosciante…