La bilancia del potere nel mondo si sta modificando rapidamente. Il declino degli USA come potenza mondiale in grado di imporre la propria visione al resto del mondo – come era stato per tutti gli anni Novanta del secolo scorso e come ancora valeva all’inizio del Duemila – è un fatto ormai incontrovertibile.

Sicuramente le difficoltà in cui si sta arenando l’operazione militare e politica in Afghanistan e il gravissimo errore della guerra in Iraq hanno contribuito ad accelerare questo processo: è un fatto che, dopo l’11 settembre, l’America ha dato l’impressione di non riuscire ad orientarsi nella nuova situazione che si era venuta a creare. L’aver sbagliato strategia, individuando nella lotta al terrorismo e nell’ “esportazione” della democrazia con le armi, le priorità della sua politica estera, dimostra che la sua risposta è stata soprattutto emotiva e volta a catturare il consenso interno piuttosto che capace di valutare gli scenari effettivi che si profilavano. Ciò non toglie che, se anche la reazione alle perdite e all’umiliazione inflitta dagli attacchi terroristici fosse stata più razionale e se il paese avesse saputo valutare più lucidamente i processi in corso in Medio oriente e nel mondo islamico, questo non avrebbe modificato il fatto che la potenza americana è sottoposta a sfide superiori alle sue forze.

Questo, del resto, è il destino della potenza dominante. E’ la stessa politica di potenza americana a creare le condizioni in cui matura l’opposizione alla sua egemonia: da un lato è inevitabile che si diffonda e si radichi in molte aree del mondo l’ostilità nei suoi confronti a causa della sua ingerenza e del suo peso nella vita politica ed economica di molti paesi, dell’ideologia e delle politiche liberiste che ha imposto, del suo tentativo di “esportare la democrazia”. Dall’altro lato, nessuno Stato può reggere a lungo il peso del tentativo di tenere sotto controllo la situazione mondiale, mentre le altre regioni del mondo godono dei benefici di questa situazione, crescendo e rafforzandosi all’ombra della pax della potenza egemone fino a diventare dei concorrenti diretti in grado di metterne in discussione la leadership. Gli Stati Uniti, che sono stati a lungo la locomotiva dello sviluppo mondiale e che godono di una superiorità assoluta in termini di armamenti e di tecnologia militare, contano però meno del 5% della popolazione mondiale, fatto che diventa rilevante quando si affacciano sulla scena internazionale i miliardi di abitanti della Cina e dell’India; hanno un’economia che, per quanto ancora forte, è ormai incalzata dallo sviluppo dell’Asia; hanno bisogno di ingenti finanziamenti dall’estero per sostenere il loro debito pubblico, cosa che li rende vulnerabili, e hanno dimostrato, per tutti questi motivi, di non riuscire a reggere uno sforzo bellico gravoso su più fronti per la difficoltà di reperire uomini e fondi.

Alcuni osservatori iniziano a vedere i segni della nascita di un nuovo equilibrio che andrà a sostituire quello unipolare; e non sarà tanto un ordine multipolare, quanto piuttosto un assetto bipolare, in cui si confronteranno un solido blocco orientale, costruito intorno all’asse russocinese da un lato, e dall’altro gli Stati Uniti con alcuni alleati occidentali ancora da definire. Proprio l’interesse a ridurre il peso statunitense, lesivo dei loro interessi, legherebbe strettamente la Russia e la Cina, che possono contare sull’esperienza russa in campo militare (oltre che sulle sue immense riserve di risorse energetiche) e sui capitali cinesi, grazie ai quali la Cina ha iniziato ad estendere il proprio controllo sui paesi esportatori di fonti di energia. Quest’asse si caratterizzerebbe così per il fortissimo peso nel settore dell’energia che diventerebbe l’elemento per attirare nella sua sfera di influenza gli altri paesi asiatici, inclusa – a medio termine – l’India, e addirittura per tentare quei paesi europei che più dipendono dalla Russia per le loro forniture energetiche.

Un simile scenario non sembra così lontano dalla realtà nel prossimo futuro, soprattutto per il fatto che gli USA non hanno strumenti per opporsi ad un simile tentativo di ridimensionamento della loro sfera di influenza. Non per niente la tentazione isolazionista torna a farsi sentire in America, rafforzata dai tragici avvenimenti in Medio oriente. Questi infatti sono il segno dell’impotenza americana sia in quell’area così cruciale, di cui gli americani stanno perdendo il controllo e che sta diventando il fulcro della reazione mondiale antistatunitense, sia nel resto del mondo. L’elenco è impressionante. Nel giro di qualche anno l’America latina, il “cortile di casa”, ha iniziato a sperimentare regimi che fanno dell’antiamericanismo il loro cavallo di battaglia, che si rifiutano (con un certo successo) di adeguarsi alle regole del FMI e che stringono relazioni nuove con la Cina, dimostrando come in questa area l’influenza statunitense sia destinata a ridursi. L’Africa, che è sempre stata terra di conquista, ormai lo sta diventando della Cina. Persino un paese alleato come il Giappone, nella misura in cui, non fidandosi più della capacità americana di difenderlo e consapevole dei rischi che i nuovi equilibri in Asia possono comportare, pensa di dotarsi di un armamento proprio, si appresta a diminuire la propria dipendenza dagli USA. Gli americani sono impotenti anche in questo caso e a nulla servono le proposte, che nell’attuale situazione sono semplicemente irrealistiche, di estendere la NATO anche ai paesi “amici” al di fuori dell’Europa: la realtà è che l’alleanza è in crisi proprio a partire dal suo ruolo rispetto al vecchio continente, essendo priva ormai di un nemico ben identificabile e quindi di ragioni che giustifichino la prevalenza degli interessi americani nella sua gestione. Benché gli europei continuino a sfruttare le risorse statunitensi nel settore della sicurezza, è chiaro che il rapporto tra le due aree del mondo ha bisogno di essere riformulato su nuove basi concrete, che potranno essere stabili solo se poggeranno su un rapporto di reale parità.

Gli scenari futuri sono quindi gravidi di incognite. Le potenze che si profilano all’orizzonte non avranno certo maggior cura degli interessi dei paesi più deboli di quanto non ne abbiano avuto gli americani. Anzi, viste le contraddizioni interne che le minacciano e che presumibilmente non si risolveranno tanto rapidamente, è facile che siano meno interessate a svolgere la funzione di traino dello sviluppo mondiale di quanto non lo siano gli americani. Inoltre, il modello che esportano è molto poco attento alle libertà fondamentali e ai diritti dei cittadini: non tanto nel senso che non applicheranno questi principi nella gestione dei loro interessi mondiali, fatto che comunque non si verifica mai in politica estera, ma nel senso che proporranno e costringeranno tutti a competere con un esempio di sviluppo vincente ancorché disgiunto dai valori dello Stato di diritto e dalle conquiste dello Stato sociale.

Cosa intendono fare gli europei a fronte di questi scenari futuri? E’ evidente che, divisi, possono solo cadere nella rete dei giochi di potere mondiali. Così come è altrettanto evidente che, se fossero capaci di unirsi realmente, creando un vero Stato europeo, avrebbero la possibilità di cambiare profondamente la natura del quadro mondiale. Sulla scena internazionale gli altri Stati sarebbero costretti a confrontarsi anche con un modello di società avanzata, politicizzata e consapevole, che da decenni ha saputo realizzare uno Stato sociale avanzato. Unita l’Europa avrebbe la forza di difendere tutto ciò e di cercare di diffonderlo negli altri paesi, avrebbe la capacità di assumersi responsabilità dirette in politica estera e di incidere sugli equilibri di potere, anche ricostruendo su basi nuove e paritarie il rapporto con gli Stati Uniti. Ma per fare tutto questo, per tornare ad avere dignità politica, progetti e obiettivi per cui spendersi, gli europei devono decidersi: gli Stati più consapevoli del valore dell’alternativa europea rispetto alla via nazionale, Francia, Germania e Italia in testa, devono fare la scelta coraggiosa di non rimandare ulteriormente il tempo dell’unità continuando a baloccarsi con ambigui tentativi di rafforzare la reciproca cooperazione in quanto Stati sovrani. Essi devono piuttosto dar vita ad uno Stato federale, che sia aperto agli altri paesi che vorranno aderirvi ma che segni al tempo stesso quella svolta nel processo di unificazione europea che era già indicata nella nascita della CECA, ma che da allora è sempre stata irresponsabilmente rinviata: prima che sia troppo tardi, prima che le divisioni scavino un solco troppo profondo tra gli Stati europei perché possa essere colmato.

 

 

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