Ora che, dopo l’elezione presidenziale, la situazione in Francia si è sbloccata, anche per l’Europa sembrano essersi create le condizioni per concludere il tormentatissimo iter di ratifica del nuovo trattato. L’obiettivo per i governi è quello di riuscire ad avere il nuovo testo entro il 2009, per evitare che il Trattato di Nizza entri in vigore e riaccenda le polemiche legate ai controversi risultati raggiunti in quel quadro. La via che si profila è quella della convocazione, già a partire dalla riunione del Consiglio europeo di giugno, di una conferenza intergovernativa con il mandato di trovare un compromesso, accettabile per tutti i paesi membri, che salvi la sostanza del Trattato “costituzionale” a scapito della forma, che è stata la principale fonte delle controversie. A suscitare reazioni ostili in tanti paesi è stato infatti proprio il tentativo di dare al nuovo testo una veste ambiziosa che evocasse scelte politiche, non solo associandolo al termine costituzione, ma anche classificandolo non come una semplice revisione dei trattati esistenti – cosa che nei fatti è – ma come un nuovo testo da sostituire ad essi; il tutto sottacendo le ragioni tecniche che effettivamente spingevano per questa soluzione e spacciando invece l’operazione per una sorta di rifondazione. In questo modo si è riusciti ad irritare l’opinione pubblica più europeista che nel trattato non ha trovato risposte adeguate rispetto alle aspettative suscitate dalla terminologia statuale e dalla solennità della sua approvazione. E, al tempo stesso, si è alimentata l’opposizione degli euroscettici che non possono tollerare l’evocazione di certi simboli, pur essendo stati svuotati di valore concreto.
Può darsi che gli europei abbiano imparato la lezione: con gli attuali numeri dell’Unione europea è difficilissimo trovare accordi sulle modifiche alle regole esistenti: la cosa può funzionare – con tempi biblici, negoziati estenuanti e prove di forza dagli effetti dirompenti (non dimentichiamo che per realizzare questa riforma dei trattati, se ci riuscirà, l’UE avrà impiegato almeno dieci anni) – solo se il risultato alla fine è quello di un rafforzamento del controllo da parte degli Stati membri sulle istituzioni comunitarie; ma se l’obiettivo che si vuole perseguire è quello del cosiddetto approfondimento istituzionale, cioè del rafforzamento “politico” dell’Europa, allora l’accordo è assolutamente impossibile. Per andare in questa direzione l’unica via è riprendere l’ipotesi delle avanguardie, che è quella che ha sempre permesso all’Europa di avanzare.
Molte voci si sono già levate in questa direzione: ad esempio l’anno scorso il primo ministro belga Guy Verhofstadt nel suo Manifesto per un’Europa nuova: gli Stati Uniti d’Europa aveva lanciato proprio la parola d’ordine del “gruppo pioniere”; nel dibattito francese sull’Europa questo tema continua a riaffiorare e anche Prodi ha parlato recentemente a Lisbona a questo proposito.
Quello che è certo è che le due questioni che diventeranno ineludibili nel prossimo futuro sono l’individuazione del quadro all’interno del quale è possibile far avanzare il progetto dell’Europa politica e la definizione di tale progetto. Ed è attorno a queste due domande, che ovviamente si condizionano a vicenda, che si deciderà il futuro degli europei.
Le posizioni emerse finora esprimono la tendenza a rimanere sempre nell’ambito del metodo comunitario, vale a dire intergovernativo, e a cercare di pensare alle regole per permettere ai paesi che vogliono avanzare più velocemente sulla via dell’unione di farlo con la garanzia di rimanere all’interno dei trattati e di avere in qualche modo il consenso degli altri. Questo significa l’estensione del complicato meccanismo del voto a maggioranza qualificata insieme all’introduzione dell’ “astensione costruttiva”, le cooperazioni rafforzate, i raggruppamenti tra paesi per aree geografiche e interessi strategici. Queste proposte altro non sono che alibi per negare il fatto che costruire l’Europa politica significa trasferire la sovranità a livello europeo per creare gli strumenti effettivi per governare l’economia, la politica estera e la sicurezza. Allo stesso modo sono degli alibi le formule fumose (come quella della “federazione atipica di Stati nazionali” o quella dell’Unione fondata “sugli Stati membri e sui cittadini”) con le quali si nega la necessità che l’Europa si faccia Stato. Il fatto è che non si possono fare passi avanti se non si supera l’assetto confederale dell’Unione e non si trasferisce il potere di decidere in ultima istanza dagli Stati all’Europa.
Tutti i progetti di tipo confederale e tutti i tentativi di modificare le regole senza attuare alcun trasferimento reale di potere sono quindi destinati a portare in un vicolo cieco.
La radice dell’impotenza dell’Europa risiede infatti nel mantenimento della sovranità a livello nazionale: finché non si scioglie questo nodo non è neppure pensabile una politica estera e di sicurezza europea, né è possibile quell’insieme di politiche europee da tutti auspicate per proteggere i cittadini e la società dai profondi mutamenti in atto negli equilibri mondiali. Ma, a sua volta, il trasferimento di sovranità implica per definizione un salto di qualità rispetto al quadro giuridico esistente e non può che essere concordato dal gruppo di paesi determinato a compierlo al di fuori degli attuali trattati, scontando l’opposizione dei paesi contrari all’ipotesi federale, Gran Bretagna in testa. L’inevitabile frattura che si produrrà all’interno dell’Unione potrà essere ricomposta solo rifondando il quadro comunitario su basi più solide rispetto alle attuali, in modo da garantire l’acquis e ridefinire le regole in base alla situazione creata dalla nascita del nuovo potere e dal cambiamento che esso apporta negli equilibri del quadro europeo. Viceversa, l’estensione del voto a maggioranza, le cooperazioni rafforzate e quant’altro non potranno portare a nessun reale incremento della capacità di azione e dell’incisività nelle politiche chiave ma, al contrario, creeranno tensioni e ambiguità che indeboliranno ulteriormente l’Unione perché non indicheranno nessuna prospettiva positiva ma insisteranno semplicemente nel perpetuare le contraddizioni dell’assetto attuale.
Se dunque – come le premesse sembrano indicare – il dibattito sul futuro dell’Unione europea si svilupperà attorno al tema dell’avanguardia è indispensabile che la voce dei federalisti europei sia chiara ed inequivocabile e ricordi continuamente alla classe politica che la sola possibilità per l’Europa è quella di far nascere uno Stato federale europeo dotato di poteri limitati ma reali nei settori della politica economica e fiscale e della politica estera e di sicurezza. L’iniziativa in tal senso può essere presa solo dal gruppo di paesi che ha avuto dal dopoguerra in poi questo obiettivo come punto di riferimento della propria storia politica Spetta dunque ai sei paesi fondatori assumersi la responsabilità di muoversi in questa direzione recuperando lo spirito federalista che in questi ultimi anni sembrano aver dimenticato.
Se essi davvero credono nella necessità di un futuro europeo per il loro paese non esistono alternative né scorciatoie: i fatti lo confermeranno, e prima se ne prenderà atto, prima si offrirà agli europei la possibilità di tornare ad essere protagonisti del loro futuro.