Fra i paesi che dal maggio del 2004 sono entrati nell’Unione europea la Polonia è forse il più problematico: vincolata a un patriottismo che scivola sempre più nel nazionalismo, limitata dalle scelte miopi dei suoi governanti, la Polonia è un paese che confida giustamente nelle sue grandi potenzialità, ma che sembra al tempo stesso sprecarle indirizzandole verso obiettivi apparentemente brillanti, ma di fatto contraddittori e privi di prospettive. L’ingresso di Varsavia nell’Unione fa parte di quel processo di integrazione a Ovest iniziato subito dopo il crollo del muro di Berlino e portato avanti con forza per tutti gli anni Novanta. Entrata nella Nato nel 1999, forte di un legame sempre più stretto con Washington, la Polonia ha condotto lunghi negoziati con Bruxelles, che sono durati quasi quattro anni. Nel 2003 ha tenuto un referendum popolare per l’ingresso nell’Unione: ha votato quasi il 60% della popolazione e di questi quasi l’80% ha detto sì. L’esito delle votazioni non va letto però come un successo dell’europeismo. Le scelte dei polacchi e del loro governo sono state segnate in realtà da un forte desiderio di emancipazione rispetto ad un passato difficile e dalla pretesa di partecipare alla spartizione della ricchezza in Europa.
Varsavia sta infatti vivendo un momento critico della sua storia. Da sempre sottomessa alle grandi potenze confinanti, la Polonia ha dovuto continuamente lottare per sopravvivere. Austria, Prussia, Russia, Germania e infine URSS hanno fatto della Polonia una terra di conquista. I polacchi hanno saputo resistere anche grazie al fatto di aver coltivato un forte patriottismo. Non c’è da stupirsi, allora, se raggiunta una piena autonomia con il crollo del muro di Berlino la nuova Polonia cerchi innanzitutto di rafforzare se stessa. Le scelte in politica estera degli ultimi quindici anni vanno tutte nella stessa direzione: cercare alleati potenti da cui attingere forza e sicurezza. La Polonia non ha potuto vedere tutto questo nella “madre Europa” sia perché l’Unione alla fine degli anni Novanta si mostrava ancora fragile e divisa politicamente, sia perché rimaneva forte la diffidenza storica di Varsavia nei confronti dei suoi grandi vicini occidentali, prima fra tutti la Germania.
Nei nuovi equilibri sorti dopo l’89 e ancora di più dopo l’11 settembre la Polonia ha trovato il suo punto di riferimento negli Usa. Tanto i socialisti di Miller quanto i conservatori dei Kaczyñski hanno dimostrato un’affezione quasi servile nei confronti di Washington. Gli americani d’altro canto sembrano favorire le intese privilegiate con i singoli paesi europei, sopratutto quelli più deboli e più manovrabili: in assenza di una vera Unione europea capace di agire come un partner affidabile in politica estera, Washington ha preferito circondarsi di paesi satellite che in cambio di protezione e finanziamenti dicano sì ad ogni sua richiesta. Non c’è allora da stupirsi se la Polonia è stata uno dei paesi che più ha appoggiato e sostenuto la politica militarista di Bush: le proposte americane di installare sul suolo polacco basi missilistiche e i cospicui investimenti delle imprese statunitensi sono stati un ottimo incentivo per convincere Varsavia su chi sia il suo miglior amico.
Entrata di diritto nell’Unione europea, la Polonia non è stata quindi docile e ubbidiente come speravano i tedeschi e i francesi. In base al Trattato di Nizza Varsavia aveva ottenuto un forte peso all’interno delle istituzioni comunitarie: i voti ponderati di cui avrebbe dovuto godere nel Consiglio dell’UE a partire dal 2009 – data di entrata in vigore del Trattato – sarebbero stati ben 27, rispetto ai 29 della Germania, che conta però più del doppio della sua popolazione. Disposta ad accettare, in cambio di ingenti finanziamenti, il nuovo sistema di voto a doppia maggioranza che le toglie parte di questa sovra-rappresentazione, la Polonia ha firmato a Roma il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa nel dicembre 2004, ma ha preso tempo per la sua ratifica. La bocciatura francese e olandese ha permesso al presidente Kwasniewski di prendere fiato sul problema del nuovo Trattato costituzionale ampiamente osteggiato dai partiti di destra. Nel 2006, con la salita al potere dei gemelli Kaczyñski alla presidenza del Consiglio e della repubblica, il nuovo governo, segnato da un forte bigottismo cattolico e dagli appelli a un nazionalismo infantile, ha accantonato definitivamente il nuovo Trattato e in sede europea si è caratterizzato per la miope politica del vantaggio nazionale (la Polonia è il paese che riceverà più finanziamenti tra il 2007 e il 2013, pari a otto miliardi di euro). Dopo aver osteggiato il tentativo della presidenza tedesca di riavviare il processo di integrazione comunitario con il mini-Trattato (anche per il fatto che conferma il sistema di voto a doppia maggioranza già contenuto nel Trattato costituzionale), i Kaczyñski si sono momentaneamente piegati solo davanti alle minaccia di Angela Merkel di lasciare la Polonia fuori dal negoziato. Il compromesso raggiunto è un Trattato che esclude qualunque passo verso l’integrazione politica, ma riorganizza il funzionamento dell’unione economica a 27 riequilibrando il peso degli Stati in base alla popolazione e riducendo il diritto di veto. La Polonia ha però ottenuto che nessuna modifica allo status quo entrerà in vigore prima del 2014, cioè prima della definizione del nuovo bilancio, per cui Varsavia spera di godere ancora del sistema di voto ponderato che l’avvantaggia. Pochi giorni dopo la fine del vertice europeo i gemelli Kaczyñski non si sono risparmiati in critiche al compromesso raggiunto prospettando una nuova opposizione.
La vicenda della Polonia dimostra quanto critica ormai sia la situazione europea dopo l’allargamento dell’Unione a 27 paesi e l’arresto del processo di integrazione. È l’eterno gioco del tiro alla fune. Da un lato tirano i paesi che vogliono solo l’Europa mercato: c’è la Gran Bretagna che rifiuta ogni cessione di sovranità sostanziale e gioca a fare la superpotenza, non accorgendosi di essere solo una pedina degli Stati Uniti; ci sono molti paesi dell’Est, prima fra tutti la Polonia, che semplicemente non si accorgono dell’insensatezza dello Stato nazionale oggi e non sanno di aver bisogno dell’Europa unita: l’Unione europea per questi paesi è innanzitutto una fonte di risorse per ricostruire la propria forza e indipendenza dopo un passato critico. Dall’altra parte della fune, invece, tirano – anche se debolmente – i paesi che chiedono maggiore unità e che vagamente comprendono che il processo di decadenza del nostro continente può essere fermato solo dalla creazione di un’unione più stretta tra gli Stati. In questo quadro a Ventisette, il passo verso l’unità politica non potrà mai essere compiuto. E’ necessario che la fune si spezzi e che chi è pronto formi un’avanguardia verso l’unità sostanziale. Il momento giusto per farlo arriverà forse alla prossima crisi dell’Unione europea. I governi di Italia, Francia e Germania devono capire che per fare il bene dell’Europa, e anche di quei paesi che ora non la vogliono unita, bisogna abbandonare gli scettici e andare avanti decisi. Se lo facessero, con il tempo la Polonia sarebbe sicuramente grata nei confronti di chi avesse oggi il coraggio di lasciarla momentaneamente da parte per perseguire davvero l’unità politica dell’Europa.