Il neo presidente Sarkozy e il suo staff hanno grandi ambizioni: vorrebbero dare alla Francia quel ruolo di attore globale che credono le sia consono. La strategia per raggiungere questo obiettivo è basata su due direzioni: la prima è un riavvicinamento agli Stati Uniti d’America, riallacciando quei rapporti transatlantici incrinati da Chiraq e dalla sua aperta opposizione alla politica estera di Washington, in particolare in occasione della guerra in Iraq. La seconda punta a garantire alla Francia una posizione di leadership in Europa.
La Francia vuole dimostrare agli USA di essere un partner affidabile, magari il partner più affidabile, quello con cui stringere quella special relationship che la Gran Bretagna del premier Brown potrebbe non essere più in grado di mantenere. La dimostrazione della buona volontà dei francesi nei confronti del governo USA è affidata alle parole del Ministro degli esteri Kouchner riguardo alla questione iraniana; questi, in concomitanza con le indiscrezioni a proposito di piani del Pentagono per un attacco fulmineo alle installazioni nucleari iraniane, senza mezzi termini ha annunciato che “bisogna prepararsi al peggio. Prepararsi al peggio vuol dire prepararsi alla guerra”, ribadendo così l’appoggio politico alle posizioni del governo USA. Tra le altre linee guida fondamentali dell’Eliseo figura anche una politica dura nei confronti di Cina e Russia, giudicate “brutali” e “insaziabili”.
Per ripristinare i buoni rapporti con l’altra sponda dell’Atlantico i francesi non si limitano alle dichiarazioni: un aiuto concreto alle forze NATO verrà dato a breve con la dislocazione di aerei da combattimento Mirage in Afghanistan, proprio quando la richiesta di Bush di nuove truppe per la coalizione internazionale si fa più insistente. Lo spostamento delle squadriglie di aviazione nel teatro afgano, oltre ad un aumento delle truppe dislocate nel paese (altri 150 uomini), lontano dai tradizionali interessi geopolitici della Francia, rappresenta un forte segnale di disponibilità per l’alleato. Inoltre, in questi giorni, il capo dell’Eliseo ripropone un progetto abbandonato dal 1997, dai tempi di Chiraq e dell’Amministrazione Clinton: il ritorno della Francia nella struttura militare della NATO (attualmente la Francia partecipa solo all’alleanza, non alla struttura tecnica e di comando), dalla quale era uscita nel 1966 per volontà del Presidente de Gaulle, critico verso lo strapotere dell’alleato d’oltre oceano e fautore di una politica estera indipendente per la Francia e per l’Europa. Da notare che queste scelte politiche francesi avevano avvantaggiato molto la Germania, che ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella strategia di sicurezza americana, tanto in Europa quanto in Africa e Asia.
Non sorprende la condizione posta da Sarkozy per il ritorno del suo paese nell’alleanza atlantica: l’assegnazione di un ruolo chiave ai francesi e “l’accettazione americana di una forza di difesa europea indipendente”. Quest’ultima dichiarazione è quanto mai ambigua, soprattutto alla luce dello slogan utilizzato in campagna elettorale “una Francia forte in un’Europa forte”. In che cosa consisterebbe infatti la “forza di difesa europea indipendente”? Non si parla certo dell’esercito unico europeo già rifiutato dalla Francia ai tempi della mai realizzata Comunità europea di difesa, bensì di un ampliamento di dimensioni e di utilizzo del già esistente Eurocorp, un battaglione comune franco-tedesco (con partecipazioni ridotte di altri paesi) che potrebbe essere impiegato anche in missioni umanitarie e di peacekeeping al di fuori del continente, principalmente in Africa. Questa proposta è da un lato debole, perché non mira al conseguimento di un esercito europeo al servizio di una politica estera unica, ma solo a rafforzare la cooperazione tra Stati che in questo campo mantengono la loro sovranità; dall’altro contrasta radicalmente con la politica effettivamente perseguita dai due paesi. Basti ricordare, ad esempio, che la Francia, per via del lungo passato coloniale, mantiene tuttora forti interessi nel continente africano ed è in prima linea nell’impiegare le proprie truppe per il mantenimento dell’ordine nei turbolenti Stati africani, e questo spesso la pone in competizione con la Germania. Per esempio, in Darfur, regione del Sudan segnata da 30 anni di guerra civile, operano truppe francesi e del vicino Chad, ex possedimento coloniale francese, truppe che Parigi vorrebbe aumentare di numero coinvolgendo altri paesi europei e ponendole sotto la bandiera dell’Unione europea. Ma in questo caso, la strategia è divergente rispetto a quella tedesca, che appoggia la linea americana che vorrebbe l’impiego di militari ONU (missione UNAMID) con ufficiali addestrati negli USA.
La politica estera di Francia e Germania diverge anche riguardo alle questioni del mar Mediterraneo: la Francia, che considera tuttora il Nord Africa e il Vicino Oriente parte della propria “sfera di influenza”, ha proposto recentemente un progetto di Unione Mediterranea, una sorta di comunità economica tra i paesi che si affacciano sullo stesso mare. Berlino, invece, come la maggior parte dei paesi del nord Europa, ha interesse a puntare sulla strategia di Barcellona per un avvicinamento tra tutti i paesi dell’UE e l’area mediterranea.
Eppure, secondo i due ministeri degli esteri, Parigi e Berlino sono pressoché d’accordo su tutto, anche sulla fornitura di impianti nucleari civili alla Libia da parte di aziende francesi.
Dunque, per quanto il Presidente Sarkozy a parole riconosca l’inattuabilità di una politica estera europea basata sull’unanimità di decisioni di 27 paesi diversi, per quanto voglia essere da sprone per gli altri partner, per quanto sostenga la Germania e ne ricerchi a sua volta il sostegno (mentre si contrastano), per quanto voglia dare alle attività di peacekeeping francesi una parvenza di “europeismo”, egli ancora persevera negli errori dei suoi predecessori: credere che la Francia possa da sola avere un ruolo internazionale, senza rendersi conto che deve essere continuamente spalleggiata o dagli altri paesi europei o dagli americani; credere che possa esserci “un’Europa forte con una Francia forte” senza pensare che un’Europa “forte” non può essere realizzata mantenendo gli Stati sovrani, con una propria politica estera indipendente; credere che possa esserci una politica estera europea senza un governo europeo, ovvero un’istituzione democratica al vertice di un vero Stato europeo.
Solo uno Stato europeo potrebbe realizzare i progetti ambiziosi che Sarkozy enuncia, ma che senza cambiare radicalmente il quadro esistente sono destinati a rimanere lettera morta.
Se i francesi, insieme ai tedeschi e ai paesi che avranno la volontà di unirsi, sapessero prendere una simile iniziativa, ne guadagnerebbero tutti: i francesi e i tedeschi in primis, che porrebbero fine alle loro sterili competizioni che riportano in auge i rispettivi nazionalismi; gli altri europei, che potrebbero finalmente far sentire la propria voce nel mondo; gli americani, che finalmente potrebbero contare su un partner affidabile (e sicuramente l’Europa sarebbe un partner dotato di maggior buon senso degli stessi Stati Uniti per le scelte di politica internazionale). Non ultimi, ci guadagnerebbero i popoli africani, perché finalmente gli europei, invece di contribuire ad alimentare il caos come fanno ora con le loro pseudopolitiche nazionali, avrebbero la capacità di provvedere a ristabilire la pace e lo sviluppo nel continente.