Nelle elezioni locali del 28 settembre gli indipendentisti catalani non hanno ottenuto il plebiscito sperato. Rimane però in Europa il problema di come gli Stati nazionali possano riuscire a garantire un quadro politico stabile e duraturo nel lungo periodo.

Il 28 settembre scorso le elezioni per il parlamento locale della Catalogna hanno visto la vittoria dei partiti indipendentisti catalani che hanno raccolto la maggioranza assoluta dei seggi sommando quelli di Juntos pel Sì e del CUP. La maggioranza nel parlamento catalano è dunque a favore dell'indipendenza, sebbene le due forze politiche che rappresentano gli indipendentisti abbiano orientamenti politici diversi. Come percentuale di voti nella regione, però, sono gli unionisti ad aver raccolto più consensi, raggiungendo il 52% con l’insieme delle forze contrarie all’indipendenza (che pure hanno diversi orientamenti politici generali: Ciudadanos, PSC, Podemos e Verdi, PP e Uniò).

Gli indipendentisti non hanno dunque ottenuto il plebiscito sperato e l'obiettivo di realizzare l'indipendenza in maniera unilaterale sembrerebbe essere momentaneamente scongiurato. Rimane però in Europa il problema, messo bene in evidenza da questa vicenda, di come gli Stati nazionali possano riuscire a garantire un quadro politico stabile e duraturo nel lungo periodo. È infatti tuttora vero che la crisi economica e istituzionale dell'eurozona spinge gli schieramenti politici verso un ritorno al nazionalismo, che può essere o nei confronti degli Stati esistenti, o indirizzato al livello locale/regioanle, spostando l'elettorato su posizioni politiche confuse, fortemente emotive, che rischiano di ritorcersi contro i cittadini stessi. Le pretese di secessione da parte della Catalogna, così come delle Scozia lo scorso anno, ne sono una prova evidente. Dal punto di vista economico infatti la secessione catalana significherebbe innanzitutto, per la regione, l'uscita dalla moneta unica e dall'Unione europea, che si accompagnerebbero a corse agli sportelli bancari, blocchi dei depositi e conversioni della valuta locale in euro per poter pagare i propri debiti, che andrebbero a propria volta precedentemente discussi con il governo spagnolo.

La Catalogna è una regione molto ricca, tant'è che nel 2013 il PIL catalano ammontava a 203.62 miliardi di euro e rappresentanva circa il 20% di quello spagnolo. Contribuisce inoltre al 25% dell'export e al 23% del PIL industriale nonostante i catalani rappresentino solo circa il 16% della popolazione della Spagna. La Catalogna è quindi il vero e proprio motore industriale del paese, anche se questo dinamismo economico è un fatto  relativamente recente. Esso è legato alla fine dell’isolamento spagnolo dal resto d’Europa in concomitanza con la fine del regime di Franco; e all’entrata in vigore dell'attuale assetto costituzionale, nel 1978, sostenuto da oltre il 90% dei catalani proprio per il grado di devoluzione dei poteri a livello locale che garantiva. La fase della grande crescita della regione di Barcellona inizia quindi con la fine degli anni Settanta. I problemi economici in caso di indipendenza non ricadrebbero pertanto solo sulla Catalogna, che, separandosi, andrebbe incontro all'instabilità finanziaria, ma anche sul resto della Spagna che vedrebbe, secondo l'economista Sala i Martin, il proprio debito crescere fino a oltre il 125% del PIL a causa dell'assenza propulsiva di una regione così efficiente.

Oggi la percentuale dei catalani favorevoli alla costituzione spagnola sembra crollata al 52%. Il 48% indipendentista sembra invece animato, nel caso delle forze di sinistra dall'opposizione al nazionalismo di Madrid; menre nel caso delle forze di destra, la motivazione sembra quella di voler preservare il controllo della propria ricchezza e di non contribuire al sistema sociale del paese, trasferendo parte delle proprie risorse alle regioni meno agiate. Vi è però un’ulteriore ragione di contrapposizione tra la Catalogna e la Spagna, analogamente a quanto succede in molti altri paesi europei. L'elettorato della Catalogna, tanto di destra come di sinistra, ha vissuto le recenti liberalizzazioni e politiche di austerità di Madrid come un attacco al proprio benessere. Tutto ciò è dovuto al fatto che la pressione esercitata dalla competizione internazionale nel nuovo quadro creato dalla globalizzazione ha creato tensioni sociali che né gli Stati nazionali, né le attuali istituzioni politiche dell'eurozona (anche per l’assenza di un bilancio autonomo che permetta di attuare politiche in grado di attutire gli shock asimmetrici e di realizzare nuovi investimenti) riescono a mitigare; e che si scaricano sui governi, alimentando anche i regionalismi e i micro-nazionalismi. 

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Come si accennava all’inizio, a prescindere dallo spirito più o meno europeista delle forze secessioniste in campo, la Catalogna indipendente sarebbe automaticamente fuori dall'Unione europea e dalla moneta unica poiché, al contrario di quanto avviene negli Stati federali, la cittadinanza europea è mediata dagli Stati nazionali e non è direttamente collegata al livello europeo. Se la Catalogna abbandonasse la Spagna i cittadini catalani cesserebbero di essere spagnoli e quindi anche europei, e la Calatogna dovrebbe dunque riproporsi come paese candidato per l'ingresso nell'Unione europea. La sua richiesta sarebbe facilmente bloccata dagli altri paesi che corrono a propria volta rischi di secessione al proprio interno, oltre che, molto probabilmente, dalla Spagna stessa. E’ impensabile, infatti, che una secessione possa avvenire in maniera indolore, anche solo per il fatto che implica la creazione di nuovi confini, di un nuovo esercito, la distruzione di parte di un potere esistente e un sistema di propaganda politica di carattere nazionalista che esalta ed enfatizza le differenze anche culturali per sostenere la divisione e dare una legittimazione fittizia alla nuova sovranità.

La realtà, pertanto, è che il nazionalismo e il secessionismo tendono ad essere molto simili. Entrambi si basano sul concetto che ogni popolo, per autogovernarsi, deve dar vita ad un proprio Stato sovrano, la cui caratteristica principale è quella di definirsi in contrapposizione rispetto alle altre nazioni e agli altri Stati. E’ il principio stesso di autodeterminazione dei popoli che ormai deve essere chiamato in causa, in un’epoca in cui l’interdipendenza lega il destino delle diverse comunità, i problemi hanno una dimensione sovranazionale, se non globale, e il vero nodo da sciogliere, quindi, è quello di trovare formule di autogoverno che si conciliino con la condivisione della sovranità e con la solidarietà.

Come spiegava Emery Reves già nel 1945 (in Anatomia della pace), “La condotta di ogni unità nazionale avente diritto di autodeterminazione non riguarda più esclusivamente gli abitanti di quella unità, ma interessa ugualmente gli abitanti delle altre unità. (...) L’autodeterminazione di una nazione in materia militare, nel campo degli affari economici ed esteri, dove il contegno di ciascuna nazione si riflette immediatamente e direttamente sulla libertà e la sicurezza di tutte le altre, crea una situazione in cui l’autodeterminazione è neutralizzata e distrutta”.

Se le forze secessioniste volessero davvero trovare una soluzione al dilemma dell’autogoverno senza cadere al tempo stesso nella trappola del dogma nazionalista della sovranità esclusiva, avrebbero a disposizone secoli di letteratura federalista per pensare ad un modello di convivenza tra lo Stato e le comunità locali da un lato e per governare il livello sopranazionale dall'altro senza invocare quegli stessi principi dello Stato mononazionale che hanno sconvolto il continente nella prima metà del secolo scorso.

 

 

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