E’ un’analisi condivisa da molti politici e da molti osservatori che l’Unione europea stia attraversando una crisi gravissima, che gli attuali meccanismi istituzionali siano sempre più paralizzati e non siano in grado di assolvere i compiti per cui sono stati creati, che l’assenza dell’Europa dalla scena internazionale sia ormai drammatica, che sia in corso un processo di crescente rinazionalizzazione, che persino l’euro non sia un risultato definitivamente acquisito, che il consenso dei cittadini sia in forte calo.
A fronte di un quadro così drammatico, che mette in dubbio persino la possibilità di preservare i risultati raggiunti finora dal processo di unificazione, si impone una riflessione sulle cause che determinano questa situazione e sulle possibili soluzioni.
Il primo fatto da prendere in esame è che il problema fondamentale dell’Unione europea sembra risiedere proprio nella sua natura ibrida di organizzazione che, da un lato, persegue un’integrazione economica profonda tra i suoi membri, imponendo regole e politiche e svuotando di fatto la sovranità degli Stati; e dall’altro continua a fondarsi, come le organizzazioni internazionali, sulla sovranità e sul potere decisionale in ultima istanza degli Stati membri.
Il risultato è un’ingerenza nelle questioni interne dei diversi Paesi che l’opinione pubblica sente in molti casi come frutto di una “burocrazia” non sottoposta ad un controllo democratico e che si accompagna all’incapacità – sarebbe meglio dire impossibilità – di rispondere alle esigenze dei cittadini e di difendere il loro livello di benessere e di qualità della vita che essi sentono minacciati.
Che il modello comunitario portasse a queste contraddizioni era un fatto implicito nella sua stessa adozione: doveva infatti essere una fase transitoria per approdare all’unità politica. Così era stato concepito dai suoi iniziatori, consapevoli del fatto che esso creava impasse che esigevano risposte europee; ed infatti, la nascita dell’euro – l’ultimo passo possibile in questa ottica di integrazione graduale, dopo il quale non resta che il salto politico – era stata accompagnata dalla discussione sulla creazione di uno Stato federale. Aver perso questa occasione ha costituito un punto di svolta nella costruzione europea. Le soluzioni parziali tentate (tutte le successive riforme dei trattati), nonostante avessero come obiettivo quello di rendere l’Unione “democratica e capace di agire” sono state di fatto un insuccesso e hanno dovuto essere mascherate con la retorica.
In questo modo l’incapacità di farsi carico dell’unica iniziativa – la nascita di uno Stato federale
– in grado di risolvere le contraddizioni europee ha costretto i governi a perpetuare il sistema che le alimentava e in più a non fare nulla per prevenire gli effetti ampiamente prevedibili del progressivo allargamento. Quest’ultimo, da parte sua, ha trasformato così radicalmente gli equilibri e le prospettive su cui si fondava il processo di unificazione da far scomparire definitivamente dall’orizzonte dell’Unione l’obiettivo dei padri fondatori. L’ingresso di molti nuovi Stati ancora legati ad una visione nazionalistica del proprio futuro politico ha reso maggioritario all’interno dell’Unione lo schieramento che si batte contro la prospettiva dell’unificazione politica e che mette addirittura in discussione i risultati già acquisiti. Inoltre i profondi cambiamenti geopolitici che la fine del bipolarismo ha comportato con la perdita dei vecchi confini, con la riunificazione tedesca, con la conseguente eterogeneità di interessi all’interno dell’Unione ha innescato una ritorno a visioni nazionali che minacciano fortemente la costruzione europea. La stessa Germania, sotto questo profilo, con la sua politica di difesa degli interessi tedeschi – cui spesso vengono subordinate ormai anche le questioni europee – costituisce una novità che solo in un diverso quadro europeo potrà modificarsi, ma che nelle attuali condizioni rende particolarmente incerta la prospettiva di un’Europa federale.
In sintesi questa Unione è gravata da contraddizioni che non costituiscono più come in passato una spinta per far avanzare il processo, ma che semplicemente la disgregano: questo perché l’unico avanzamento reale sarebbe ormai la creazione dello Stato federale, ma questa ipotesi nel quadro dell’Unione a venticinque è improponibile.
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Se questa analisi è corretta bisogna trarne alcune conseguenze. La prima è che nell’ambito delle istituzioni dell’Unione qualsiasi battaglia per la Federazione europea è perdente. Lo dimostra il fatto che tutti i sostenitori dell’Europa politica che mantengono il quadro europeo attuale come punto di riferimento sono costretti a fare proposte minimaliste, e quindi irrealistiche e ininfluenti. Due esempi significativi: a gennaio alcuni esponenti del PSE, e precisamente Massimo D’Alema, Anna Diamantopoulou, Kinga Göncz, Bruno Liebhaberg, Diego Lopez Garrido e Dominique StraussKahn, con l’obiettivo di rilanciare la costruzione europea, hanno diffuso un appello in cui ponevano il problema dell’insostenibilità del “divario tra un’Europa a forte contenuto politico e a debole legittimità democratica” e sottolineavano che “una delle principali sfide è la trasformazione della Commissione in un esecutivo dell’Unione veramente democratico, eletto dal Parlamento, che emerga dalla maggioranza politica uscita dalle urne e che, pertanto, sia responsabile di fronte ai cittadini”. Presa alla lettera si tratta della proposta di trasformare l’attuale Unione in uno Stato federale, perché nella misura in cui la Commissione diventasse un governo sovrannazionale responsabile di fronte al Parlamento eletto dai cittadini, la trasformazione del Consiglio in una Camera alta sarebbe inevitabile. Ma qual è concretamente il passo che separa la Commissione dal diventare un vero governo? Solo la modalità di elezione del Presidente e dei suoi membri come sembra suggerire l’appello del PSE o piuttosto il fatto che il potere rimane ai governi nazionali? La sovranità può “scivolare” dagli Stati all’Unione solo grazie all’introduzione di un escamotage istituzionale o piuttosto qualsiasi riforma è destinata a svuotarsi senza una consapevole e deliberata cessione di sovranità da parte degli Stati? E’ chiaro che i Venticinque, nelle attuali condizioni, non saranno mai d’accordo sul fatto di creare una sovranità europea e quindi di avere un governo europeo che li trasformi in Stati membri di una federazione. In verità questo caso dimostra che il quadro dell’Unione costringe a pensare il progetto federale in termini di evoluzione delle istituzioni esistenti, occultando così i problemi reali della volontà politica indispensabile per operare questo passaggio e della necessità della nascita di un nuovo potere sovrannazionale.
Un caso diverso ma che suscita considerazioni analoghe è quello della proposta del Primo ministro belga Guy Verhofstadt, che ha recentemente lanciato un manifesto dal titolo eloquente Verso gli Stati Uniti d’Europa . Verhofstatdt ritiene indispensabile arrivare alla creazione di un’Europa politica, gli Stati Uniti d’Europa, appunto, e ritiene anche che l’iniziativa in tal senso, visto che non raccoglie il consenso di tutti gli Stati membri, debba essere presa da un’avanguardia di Paesi, costituita dai paesi dell’area dell’euro insieme eventualmente a quelli che si stanno preparando ad entrarvi. Il fatto però di pensare una iniziativa di questo tipo, che pure non coinvolgerebbe tutti i Paesi dell’Unione, in una prospettiva comunque di evoluzione dell’attuale quadro comunitario rende le proposte di Verhofstadt debolissime. Il suo progetto non mette in discussione la natura ibrida della costruzione comunitaria e quindi accetta, nei fatti, una gestione intergovernativa delle competenze demandate al livello europeo, limitandosi a proporre di rafforzare la governance in campo economico creando un gabinetto socioeconomico nella Commissione e stabilendo alcune misure per salvaguardare lo Stato sociale, di affidare il mandato per la politica estera ad un Ministro degli esteri, sul modello di quanto previsto dal Trattato costituzionale, di creare un esercito comune le cui forze devono essere messe a disposizione dagli Stati, di riformare il sistema fiscale e di rendere autonoma l’UE nelle sue entrate. Nel complesso, una serie di riforme che non cambierebbero la sostanza della situazione attuale e non potrebbero quindi essere né efficaci né tanto meno risolutive rispetto alla crisi in corso.
La seconda conseguenza da trarre è che l’unica possibilità di realizzare l’Europa politica che tanti invocano è quella di abbandonare la logica dei piccoli passi e dell’evoluzione del quadro europeo attuale e di costruire, fuori dai trattati esistenti e soprattutto fuori dal quadro dell’Unione, uno Stato federale a partire dai Paesi fondatori e con quanti altri vorranno immediatamente aderire. Bisogna pensare di dare vita ad un patto federale, attraverso il quale gli Stati disposti a farlo trasferiscano a livello europeo la sovranità in campo militare e nella politica estera e si impegnino a convocare un’Assemblea costituente da eleggere nei paesi che abbiano sottoscritto e ratificato il patto, con il mandato di redigere la costituzione dello Stato federale europeo aperto a quanti vorranno aderirvi. Un progetto quindi che costituisce un vero e proprio nuovo inizio che si fonderebbe, ovviamente, sui passati cinquanta anni di integrazione e che porterebbe immediatamente a rinegoziare l’attuale costruzione comunitaria, trasformandola e permettendole di risolvere le contraddizioni che la stanno distruggendo.
Per i partiti e per i governi che vogliono l’unità dell’Europa si tratta perciò di distinguere da un lato la partecipazione alle istituzioni dell’Unione, che li vede inevitabilmente coinvolti perché è un elemento del potere nazionale, ma che ha una sua logica e una sua inerzia che ormai non permette più di pensare in termini federalisti; dall’altro l’azione per rilanciare il progetto europeo. Solo tenendo i due ambiti distinti diventa possibile valutare fino a che punto si sono esaurite le potenzialità dell’attuale quadro europeo e individuare realisticamente le alternative.
In questa prospettiva, per l’Italia e per il suo nuovo governo si tratterà di avviare una riflessione seria. Per il nostro Paese è venuto il momento di valutare se vuole avere ancora un ruolo come fondatore che ha sempre promosso il progetto federale nel senso più autentico della parola, e in tal caso dovrà identificare gli interlocutori e le iniziative da portare avanti; oppure se vuole rimanere nell’irresponsabilità e nella confusione condannandosi al declino e alla marginalizzazione. E’una scelta da cui dipende il futuro di tutti i cittadini e quanto prima si incomincerà a parlarne seriamente tanto maggiori saranno le possibilità che i termini della questione si chiariscano.