La possibilità di una “guerra delle monete”, di cui si parla in queste ultime settimane, è la dimostrazione della difficile fase che la politica e l’economia internazionali stanno attraversando. Le grandi potenze economiche, nonostante la strettissima interdipendenza, faticano a trovare un accordo che permetta loro di cooperare in modo sinergico, mentre, al contrario, cresce sempre più la competizione reciproca.
Le prime avvisaglie della crescita delle tensioni in campo monetario risalgono all’inizio dell’estate, quando gli Stati Uniti hanno iniziato ad aumentare la pressione sulla Cina chiedendole di rivalutare la propria moneta. Il 16 giugno, Barack Obama aveva implicitamente sollevato il problema in una lettera ai paesi del G20 in cui sottolineava come “i tassi di cambio determinati dal mercato sono essenziali per la vitalità economica globale”. Oggetto della critica era l’atteggiamento mercantilista degli Stati esportatori netti, che realizzano grossi surplus e che in questo modo – come teorizza Krugman, Premio Nobel per l’economia – contribuiscono all’incremento della disoccupazione negli altri paesi; infatti, in un periodo di scarsità della domanda come l’attuale e come quello, in generale, degli ultimi anni, è proprio il fatto che i paesi in attivo spendono molto meno rispetto a quanto ricavano esportando che impedisce la ripresa. In particolare Obama si riferiva alla Cina con i suoi 297 miliardi di dollari di surplus, ma anche alla Germania che, di surplus, ne ha 135 miliardi di dollari.
Nel corso del G20 svoltosi a fine giugno a Toronto, pertanto, i temi al centro della discussione sono stati le politiche per favorire la ripresa economica e la questione della politica monetaria cinese. Nel primo caso, le decisioni, relative allo stimolo da mettere in campo per aiutare l’economia a ripartire hanno riguardato la riduzione dei disavanzi pubblici (con l’obiettivo di un ridimensionamento del 50%), mentre, dal canto suo, la Cina ha finalmente promesso una rivalutazione dello yuan, sebbene Hu Jintao desiderasse che tale notizia non trapelasse per non dare l’impressione che il paese cedesse a pressioni esterne. La manovra cinese, in ogni caso, è di entità molto più ridotta di quanto non sperasse Obama, tant’è che, ancora il mese scorso, la Cina ha registrato un grosso surplus di 27,8 miliardi.
In America, economisti, esperti e politici si dividono tra chi crede fermamente che la Cina stia ancora manipolando a proprio vantaggio i tassi di cambio e chi crede invece che il paese sia consapevole degli effetti della sua politica sull’economia internazionale e si stia in realtà comportando come un attore responsabile; il problema sarebbe piuttosto quello che, nella situazione attuale, una manovra monetaria non comporta necessariamente un calo significativo del surplus. Resta il fatto che la Cina persegue il proprio interesse in modo autocratico e ponendosi traguardi molto ambiziosi: la scelta dei mercati da conquistare e influenzare (il Sud America, l’Africa, il resto dell’Asia), la lentezza con cui procede alla riduzione del surplus, la costruzione di una flotta sempre più grande e potente sembrano dimostrarlo. Ma, al tempo stesso, la complementarietà sul piano economico rispetto agli USA, con cui la Cina inizia a condividere la leadership a livello mondiale, spiega anche le ragioni per cui i due paesi trovano spesso modalità di collaborazione determinanti per gli equilibri globali. Basti pensare alla delicata situazione del debito americano, che raggiunge quasi i 14 trilioni di dollari, e di cui una larga fetta è in mano alla Banca centrale cinese; questo fatto crea al tempo stesso una situazione di complementarietà degli interessi dei due paesi, ma anche rischio di frizioni. Per la Cina, infatti, è importante che il valore del dollaro si mantenga elevato, e non scenda provocandole ingenti perdite, mentre gli Stati Uniti hanno la fortissima preoccupazione che la Cina possa metterli in difficoltà vendendo ampie quote dei titoli americani.
Una delle difficoltà che complicano ulteriormente la situazione internazionale è legata alla crisi del debito dell’Unione europea, e ai rischi che ne conseguono. Dagli Stati Uniti giungono spesso gravi critiche riguardo all’immobilità e al nonagire europeo, che pesa come un macigno su ogni decisione che Cina e USA tentano di prendere in campo economico. Queste critiche sono state ripetute anche nel G20, dove Obama, riguardo alla situazione europea, ha sottolineato che “gli amici europei si confrontano con decisioni difficili, ma la nostra solidità fiscale di domani dipende dalla nostra possibilità di creare posti di lavoro e crescita oggi… Solo allora potremo raggiungere l’obiettivo di tagliare del 50% il nostro disavanzo federale entro il 2013”.
Dal canto loro, gli Stati Uniti progettano una grande manovra da 500 miliardi di dollari, che dovrà essere in larga parte finanziata dalla Fed, la quale, essendo un’istituzione che agisce all’interno di un quadro statuale federale, ha, al contrario della BCE, il potere di iniettare liquidità nel sistema, oltre a quello di ridurre i tassi praticamente a zero. L’obiettivo vuole essere quello di sostenere le esportazioni americane, sia attraverso gli stimoli alla produzione, sia provocando una svalutazione del dollaro. E’ lo stesso Obama a ricordare di aver detto “agli amici del G20 che nessuno deve presumere di poter garantire la propria prosperità semplicemente esportando in America. Anzi, ho detto chiaramente che l’America competerà con tutte le sue forze per i mercati all’esportazione…”. Si tratta di un messaggio ovviamente diretto alla Cina che, circa un anno e mezzo fa, per bocca di Zhou Xiaochuan, presidente della PBOC, aveva proposto una riforma del sistema monetario internazionale per sostituire il dollaro con un paniere di monete e togliere agli USA il privilegio di possedere la moneta di riserva mondiale. Questa proposta si basava su quello che in economia è noto come il “dilemma di Triffin”, che dimostra come il paese che al tempo stesso svolge il ruolo di gendarme del mondo e detiene la moneta di riserva mondiale gode di vantaggi competitivi che falsano i rapporti economici reali. In particolare il paese in questione può permettersi una bilancia (anche pesantemente) passiva perché drena capitali dal resto del mondo. Oggi invece gli Usa, visti i nuovi rapporti di forza reali nella competizione economica, dimostrano di aver compreso la necessità di far crescere le proprie esportazioni e porre fine alla situazione degli ultimi decenni di cronica passività della propria bilancia commerciale.
Cosa ne è in questo quadro dell’Europa? La capacità di intervento degli USA ha fatto sì che, in seguito alla crisi economica, essi abbiano avuto un calo della crescita mediamente del 2,7%, mentre l’UE ha registrato un calo di circa il doppio, nonostante la crisi sia nata negli Stati Uniti. E in più, gli effetti delle “rigidità strutturali” di un’area che detiene una quota del mercato mondiale superiore al 60%, come dice Obama, sono pesantemente negativi per la stabilità globale.
La mancanza di unità politica degli Europei, e quindi l’assenza di un vero governo europeo dell’economia, non è pertanto solo un ostacolo alla crescita e allo svi
luppo del nostro continente, ma ipoteca fortemente anche la stabilità mondiale che avrebbe bisogno di scelte politiche coraggiose. Stati Uniti e Cina si assumono le loro responsabilità, ma l’inerzia europea costituisce un grave ostacolo, perché l’UE non solo non è in grado di fare proposte, ma nemmeno riesce ad adeguarsi alle strategie politiche che essi propongono. Eppure, la crisi economica globale continua a pesare sul futuro soprattutto dei paesi occidentali, e gli Europei dovranno trovare in fretta il modo per unirsi e fondare uno Stato federale europeo se non vorranno essere schiacciati nel nuovo scenario internazionale che la loro stessa divisione avrà contribuito a rendere più instabile.