Nelle ultime settimane di agosto, il mondo ha assistito impotente ad un’ulteriore brutalità dell’ISIS, ovvero la distruzione del sito archeologico di Palmira in Siria. Tuttavia, sarebbe un errore ritenere la distruzione di Palmira figlia del solo fondamentalismo jihaddista; dietro tale atto, infatti, non c’è soltanto la volontà di cancellare la storia della Siria pre-musulmana, ma anche un interesse meramente economico. Da tempo l’ISIS usa il contrabbando internazionale dei manufatti archeologici come strumento di finanziamento.

Finanziarsi per lo Stato Islamico è di vitale importanza. Sia in Iraq che in Siria, l’ISIS ha conquistato diversi giacimenti di petrolio e gas per poi rivendere le materie prime al mercato nero; non è un caso che Palmira si trovi a pochi chilometri da Jazal, ultimo pozzo petrolifero in Siria ancora in mano alle forze lealiste di Assad e sotto attacco del Califfato dal 7 settembre.

Il mercato nero di petrolio e opere d’arte, sommato ai riscatti e ai depositi valutari saccheggiati dalle città conquistate, foraggiano un patrimonio che secondo le stime dell’intelligence statunitense ammonta a circa 2 miliardi di dollari. Per comprendere la necessità dell’ISIS di finanziarsi bisogna partire da un presupposto: l’ISIS non pensa se stessa come un’organizzazione terroristica sul modello di Al-Qaida, ma si considera il nucleo di un nuovo Stato. Avere un patrimonio considerevole è pertanto funzionale al consolidamento del controllo sui territori conquistati. I miliziani al servizio dello Stato Islamico ricevono uno stipendio minimo di 200 dollari mensili; nelle città conquistate si pagano gli stipendi di una nuova “amministrazione pubblica” fedele alla dottrina fondamentalista dell’ISIS. Inoltre il Califfato finanzia una complessa macchina di propaganda, funzionale non solo a diffondere il terrore ma anche ad aumentare il proprio consenso nel mondo musulmano. Sebbene l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale sia rivolta soprattutto verso le brutalità commesse dall’ISIS e le sue minacce all’Occidente, non bisogna dimenticare che esiste anche un’altra propaganda rivolta verso i musulmani in cui viene data una visione utopica della vita nello Stato Islamico. Questo ultimo tipo di comunicazione non solo serve a rafforzare il proprio potere ma è anche il primo passo con cui l’ISIS attira l’attenzione dei giovani musulmani che vivono in Occidente.

La minaccia del Califfato non si limita soltanto a Siria e Iraq, dove da mesi ormai controlla ampie porzioni di territorio; il suo messaggio fondamentalista ha raggiunto organizzazioni islamiste anche in altre realtà: la bandiera nera del Daesh sventola su Sirte nella Libia oramai frammentata e dilaniata dai conflitti interni. In Nigeria il gruppo separatista di Boko Haram ha giurato fedeltà al Califfato. Altre organizzazioni islamiste potrebbero avvicinarsi sempre più all’ISIS in Afghanistan, Pakistan e Filippine. Il rischio concreto è che mentre il Califfato concentra uomini e risorse per continuare a estendere il proprio controllo sul Medio Oriente, queste organizzazioni diventano lo strumento dello Stato Islamico per colpire al di fuori del teatro mediorientale.

Di fronte ad una tale minaccia, la comunità internazionale, sebbene condanni senza riserve il Califfato, si è mostrata divisa e incapace di adottare una strategia comune. In primis le stesse potenze regionali non riescono a coordinare un fronte comune: gli interessi contrastanti tra Turchia, Israele, Iran, Egitto ed Arabia Saudita non solo compromettono la stabilità dell’intera area, ma hanno consentito all’ISIS di farsi largo in Medio Oriente approfittando delle divisioni statali, etniche e religiose. Da rilevare in particolare l’atteggiamento della Turchia che non solo non ha fornito il necessario supporto alla comunità curda che combatte l’ISIS a Kobane, ma ha cominciato delle azioni militari lungo la frontiera contro gli stessi curdi per contrastare, secondo il governo turco, un’eventuale ascesa del PKK nell’area.

Cosi come le potenze regionali, anche Stati Uniti e Russia si sono mostrate incapaci di adottare una linea comune sulla crisi mediorientale. Il nodo del contrasto tra le due potenze è la sopravvivenza politica di Assad in Siria. La Russia da tempo sostiene il presidente Assad fornendo non solo aiuti finanziari e militari ma, come dichiarato dal ministro degli esteri Sergei Lavrov, anche inviando in Siria personale militare. Lo stesso ministro non esclude un intervento militare russo per risolvere la crisi siriana pur nel rispetto del diritto internazionale e allo scopo di sconfiggere l’ISIS. D’altra parte gli Stati Uniti, che guidano una coalizione con altri paesi, occidentali e non, si trovano nella problematica situazione di voler dare priorità alla lotta contro il Califfato ma, al contempo, di voler destituire Assad e togliere la Siria dall’orbita di influenza russa. I bombardamenti effettuati dalla coalizione guidata dagli USA contro le postazioni dello Stato Islamico non hanno finora raccolto i risultati sperati. L’ISIS, seppur con alcune difficoltà, continua la sua avanzata in Siria verso Aleppo (contesa tra forze islamiste e lealiste) e in Iraq dove i miliziani del Califfato, dopo la conquista di Mosul, si trovano a circa 130 km dalla capitale Baghdad.

La crisi in Medio Oriente rappresenta una enorme sfida per l’Europa e l’ondata di richiedenti asilo delle ultime settimane ne rappresenta solo un aspetto. Mentre gli Stati nazionali europei litigano fra loro sul come “spartirsi” le quote di rifugiati, manca del tutto una strategia europea comune sul come risolvere la crisi all’origine. La questione mediorientale non potrà trovare risposta senza l’intervento della comunità internazionale, all’interno della quale è assolutamente necessaria una voce unica europea che sia in grado di superare le divisioni internazionali. Gli Stati nazionali europei non sono stati in grado di avere un ruolo dalle primavere arabe in poi, lasciando che altre potenze intervenissero sulla questione, finora inefficacemente. Priva di una politica estera e di difesa comune l’Europa continuerà a subire le dinamiche internazionali anche quando queste riguardano il proprio vicinato.

 

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