Negli ultimi mesi è andata crescendo a livello politico la consapevolezza di quanto sia importante, anzi necessaria, un’intesa fra i Sei sul futuro dell’Europa. In Italia l’ha sottolineata più volte il Presidente Ciampi; si sono poi pronunciati in questo senso il vicepresidente della Convenzione europea Giuliano Amato, il ministro degli Esteri Frattini e, pare, lo stesso Presidente del Consiglio Berlusconi in colloqui informali con il Cancelliere Schroeder. Tutto ciò appare un segno chiaro di due cose. La prima e più importante è che la responsabilità e il ruolo dei Sei sono dati evidenti, stanno nella logica delle cose. La seconda è che la campagna sui Sei avviata da più di un anno ha richiamato quella evidenza e ha contribuito a suscitare quella consapevolezza. Non è un caso che la maggior parte di queste prese di posizione (non tutte, per fortuna) siano partite dall’Italia, dove la campagna ha preso avvio ed è stata finora più viva.

Certo, nel proporre intese a Sei le idee dei nostri politici appaiono finora deboli e vaghe. Niente di lontanamente simile alla proposta Lamy-Verheugen di nucleo federale tra Francia-Germania e chi altro ci sta. Niente che traduca in proposte politiche le analisi di alcuni esperti, fra i quali voglio citare Boris Biancheri: se vi fossero in Europa più menti politiche davvero realistiche e lungimiranti, si potrebbe sperare di allargare il cerchio europeo […] e di ricreare al contempo, a partire dai Paesi fondatori, un nucleo di Stati che riprendano su base ristretta la via dell’integrazione e dell’unità (La Stampa, 1012 02).

D’altra parte, un’Italia che si stacca dagli altri fondatori è sempre più un paese alla deriva: è la preoccupazione del Presidente Ciampi. Si veda l’appiattimento sulla politica statunitense che ha contrapposto il nostro governo a quelli di Francia e Germania, i quali hanno invece espresso, sia pure in modo inadeguato e talvolta discutibile ma con quella punta di legittimo orgoglio che deriva dalla coscienza di un’identità e di una cultura comune, una posizione autonoma europea e una chiara consapevolezza degli interessi del continente. E così si sono fatti portavoce dell’opinione della stragrande maggioranza dei cittadini non solo dei loro paesi ma della stessa Italia. Persino, in certa misura, dell’elettorato dei Quindici. Non solo. Hanno potuto coagulare un’intesa mondiale, certamente ancor debole rispetto alla determinazione della superpotenza americana, ma che lascia intuire quale diverso ruolo di equilibrio e di pace potrebbe svolgere su scala globale un nucleo federale europeo.

L’Italia si è messa invece in un gioco in cui non ha che da perdere. Non solo perché la sua debolezza ne fa un piccolo vassallo del super-potente alleato americano lo sono anche i paesi europei più forti, figuriamoci noi ; né solo perché, come tutti, saremo penalizzati dalle conseguenze economiche della guerra e dall’infiammarsi del fondamentalismo e del terrorismo; ma anche perché saremo il primo paese dell’Unione ad essere investito dalle ondate migratorie provocate dalla guerra.

L’Italia avrebbe tutto l’interesse a restare saldamente ancorata ai paesi fondatori e a spingere per costruire con loro un futuro europeo di stretta unità. Interesse economico, certo: Francia e Germania sono in assoluto i paesi con cui intrattiene i rapporti commerciali più intensi. Ancor più, interesse politico: diciamo pure, ragion di Stato. Nell’Unione allargata e diluita che si sta preparando, l’egemonia tedesca sarà inevitabile e il ruolo dell’Italia sempre più marginale. Solo la nascita e la partecipazione ad un nucleo federale può salvarla, darle spazio e ruolo.

Eppure, capovolgendo la tradizione federalista che ha dato con Spinelli, Einaudi e De Gasperi figure di primo piano alla causa europea, ecco come esprime la posizione ufficiale italiana nella Convenzione il Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini (Sole 24Ore del 9 marzo): “Più Europa per il governo italiano […] non significa uno Stato o Superstato federale”. Ma c’è dell’altro: quel tanto di “sovranità condivisa” che si raggiunge a livello europeo deve essere sempre revocabile!!! …Non si era mai giunti a tanto, da parte di un paese fondatore. Per non parlare (cito sempre quell’articolo) del progetto che siano i parlamenti nazionali a valutare la conformità o meno delle proposte della Commissione europea al principio di sussidiarietà. Infine, ecco un’autentica perla: “più Europa significa […] definire un patrimonio condiviso di identità e valori tale da renderla un soggetto forte e credibile sulla scena internazionale”: come se bastasse questo! come se un insieme di politiche estere nazionali indipendenti potesse fare dell’Europa “un soggetto forte e credibile”! come se quanto sta avvenendo non avesse aperto gli occhi a nessuno! Ma stiamo tranquilli: “è questa la linea su cui la Convenzione si muove e a cui l’Italia sta dando il suo contributo”. Superfluo ogni commento.

Ben altre responsabilità e possibilità ha il nostro paese. Ciampi, nella sua lettera a Berlusconi del 15 febbraio, dopo aver ricordato il ruolo di paese federatore storicamente svolto dall’Italia” e ”le responsabilità gravanti sulle sue spalle come paese fondatore”, ha affermato “una duplice urgenza: la necessità di mantenere salda la coesione fra gli Stati fondatori, il cui ruolo di coscienza e stimolo politico rimane insostituibile; e la necessità di […] un trattato costituzionale […] che non rallenti la volontà di avanzamento di quegli Stati desiderosi di progredire con maggiore celerità sulla via dell’integrazione europea”. Parole condivisibili da noi federalisti, ma con due necessarie postille: l’“avanzamento” sarà tale solo se ci condurrà alla fondazione dello Stato federale; e se non si vuole sottostare al veto del Regno Unito e di altri, si dovrà essere disposti a fondare il nucleo, come diceva Fischer, anche “al di fuori dei Trattati”: compreso, se necessario, proprio quel “Trattato costituzionale” che uscirà, finita la Convenzione, dalla prossima conferenza intergovernativa.

 

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